sabato 26 marzo 2011

4 CURIOSITA. UN IDIOMA, UNA LINGUA E LA SUA SCOMPARSA

IV Capitolo
CURIOSITÀ.
Un idioma, una lingua e la sua scomparsa.
Un idioma, un lingua che scompare, è per tutti la perdita della propria identità e della di storia e delle proprie origini. Sulla terra si parlano circa 6.000 lingue. Ogni due settimane ne muore una. Tra un secolo la metà di esse saranno scomparse. Nel 1992 in Turchia è morto Tefvik Esenc: con lui è morta anche la lingua Ubykh, una volta parlata nel nordovest del Caucaso. L'Ubykh non è l'unico idioma che non si sentirà più parlare nel terzo millenio, perché il numero delle lingue che entro il 2100 saranno estinte è calcolato tra 5.000 e 6.700, mentre il 60% di tutte le lingue è a rischio (per la maggior parte dei linguisti una lingua è in pericolo quando il numero dei suoi parlanti sono meno di 100.000 (e/o quando è limitata ad alcune funzioni comunicative, come nell’otttocento il caso del Tarùsc per l’alto vergante) e tutto questo continuerà ad accadere a nostra insaputa..” Così come lo era 2,3 secoli fa nel nostro paese, dopo il medio evo fino nell’era dei comuni, partendo dal fatto che le aree geografiche che presentavano la maggiore diversità biologica erono anche i luoghi con la maggiore diversità linguistica e culturale. Le lingue, gli idiomi, i dialetti, incominciarono a consumarsi nel momento che le vie di comunicazione crescevano ed in maniera marcata dalla prima guerra mondiale, in Italia inizia in maniera definitiva la omologazione dalla prima guerra di indipendenza. L’Italiano, ha iniziato a colonizzare la penisola, ha fatto quello che hanno fatto gl’inglesi nel modo, eliminando in maniera naturale la barriera degli idiomi. Basti pensare al fatto che in Europa si parlano soltanto il 3% delle lingue del mondo, mentre la maggior parte di esse sono parlate nei paesi tropicali, e cioè nella zona che va dalla costa dell'Africa del sud est, attraverso il bacino del Congo, arriva all'Africa orientale, e nella zona che va dall'India meridionale e dalle penisole del Sudest asiatico fino alle isole dell'Indonesia, della Nuova Guinea e del Pacifico. Queste due aree racchiudono il 60% di tutte le lingue, ma soltanto il 27% della popolazione mondiale e il 9% del territorio mondiale. Se qualche catastrofe spazzasse via tutte le lingue dell'Europa occidentale perderemmo relativamente poco della diversità linguistica del mondo, anche perché la maggior parte delle grandi lingue europee hanno somiglianze strutturali, dovute alle loro relazioni storiche. Se dovessero scomparire invece le lingue della Nuova Guinea, la perdita sarebbe ben più grave, perché lì la divergenza tra le lingue è molto più profonda. Ma la loro perdita significherebbe la simultanea scomparsa di intere culture e di tutto il prezioso sapere sul mondo, da loro accumulato. Il fenomeno come parte del più ampio collasso dell'ecosistema su scala planetaria. Ad essere colpite sono dunque in primo luogo le zone in cui purtroppo assistiamo alla scomparsa della biodiversità (piante, animali l’uomo soccomberà più tardi dopo che gli stessi avranno, sfruttando la terra, desertificato intere zone del pianeta.), e cioè l'Asia, l'Africa centrale e, infine, anche se in modo leggermente minore, il mondo latino americano. Noi, possiamo imparare molto anche sulla situazione che si è venuta a creare in Europa ed in Italia, che, non significa l’azione degenerativa che stanno attuando alcune forze politiche in Itaia, ma introducendo nell spazio scuola – sperimentazione ( una specie di etica linguistica) in tutte le regioni, le diferenti parlate del nostro paese e riscoprire le radici sono parte della nostra soppravivenza. Il particolare sta infatti proprio nella prospettiva da cui si guarda la storia umana, cioè quella del suo sviluppo linguistico. Questo equilibrio si è alterato a causa di due ondate di cambiamento:
LA PRIMA, l'ondata biologica . Incominciò circa 10.000 anni fa e coincide con lo sviluppo dell'agricoltura, che ha portato alla diffusione delle lingue nei centri agricoli, diffusione bloccata soltanto laddove l'ecologia diventava scarsamente adatta per un particolare tipo di coltivazione e laddove si frapponevano barriere naturali. Questo è il motivo per cui ai margini delle odierne grandi famiglie linguistiche, per esempio in remote regioni montuose e boscose, ci imbattiamo in piccole società linguistiche (come nel Caucaso), la cui presenza rimanda a quella diversità ormai perduta.
LA SECONDA, l’ondata del cambiamento. Invece è recente, ma ugualmente disastrosa per le lingue. Si tratta di una trasformazione dovuta all'attività economica, alla colonizzazione, alle guerre di conquista degli ultimi due secoli che ha portato a un mutamento linguistico difficile da osservare, ma altrettanto potente e così troviamo (come sulle nostre Alpi, sulle nostre regioni del Sud, in seguito a forte emigrazioni, dall’est all’ovest e dal sud al nord del mondo, e/o per persecuzioni religiose o razziali , i valdesi,gli albanesi, gli arabi ecc. ). Durante questa seconda ondata si è prodotta la differenza tra le lingue metropolitane e le lingue periferiche, cioè fra quelle che danno o non danno accesso simbolico alla sfera dell'economia sviluppata. Le lingue metropolitane sono quindi associate a una classe economica e sociale dominante, come per esempio l'inglese nella Gran Bretagna dell'industrializzazione o in un qualsiasi paese in via di sviluppo. Le lingue periferiche, al contrario, sono confinate in regioni meno sviluppate e danno quindi accesso a una gamma più ristretta di funzioni e ruoli economici. E' ovvio che ciò che determina il ruolo periferico di una lingua non risiede minimamente nella lingua stessa (nella sua struttura, per esempio), ma è un fattore che va rintracciato nella differenza tra le economie e le società delle persone che la parlano. A questo punto è quasi superfluo ricordare che da quando alcune lingue (soprattutto l'inglese,il francese e lo spagnolo) sono diventate lingue globali dominanti, la minaccia di estinzione per quelle meno prestigiose ha subito una accelerazione senza precedenti. Questo sviluppo ha avuto delle conseguenze che tuttora possiamo avvertire anche in Europa, perché nel vecchio continente, a causa dell'identificazione tra identità nazionale e integrità linguistica, la diversità linguistica ha finito per essere limitata alle zone di confine; a ciò si aggiunga anche che nell'opera di definizione dei confini nazionali alcuni gruppi si sono ritrovati dalla parte "sbagliata" del confine o si sono ritrovati dispersi in svariati stati-nazione (lascio alla vostra fantasia indovinare quali). In Europa, malgrado ben 25 dei 36 stati-nazione moderni siano ufficialmente monolingui, tuttavia ospitano comunque delle minoranze, indigene e non, le cui lingue non hanno lo stesso status delle lingue ufficiali. Questo fenomeno viene giustamente considerato come una forma di colonialismo interno, che fa spesso sentire a coloro che vivono alla periferia il loro bi o plurilinguismo come un peso (per converso, bisogna anche sottolineare che non si può imporre un bi o plurilinguismo con la forza). Come iniziativa, prendiamo in considerazione tutta una serie di misure, atte a inglobare la salvaguardia delle lingue nel più generale attivismo in difesa dell'ambiente inoltre il desiderio di invertire la direzione, e cioè di fermare l'estinzione di una lingua, è stato il desiderio delle persone stesse, in particolare nella comunicazione intergenerazionale all'interno delle famiglie, tra madre e figlia, di trasmettere un sapere sul mondo. Senza queste pratiche di salvaguardia, basate sullo scambio vitale, tutti i progetti che poggiano unicamente su legislazione a tutela di una lingua non avranno successo. E qui si chiude il cerchio: è quindi necessario sensibilizzare il maggior numero possibile di persone per sviluppare pratiche volte al mantenimento delle lingue, salvaguardando contemporaneamente le culture e l'habitat in cui si sono sviluppate. Ecco che si parla di estinzione e suicidio delle lingue, addirittura dell'inglese come "lingua killer", il che mi sembra un segno di un certo senso di colpa . Finora siamo stati indifferenti a questo tema a chiediamoci se la migliore politica può essere davvero quella di continuare a non fare niente, anche perché siamo continuamente invitati a ripensare le nostre pratiche linguistiche quotidiane. Convivere, giustamente, a un mondo in cui tutti sono plurilingui (c'è la lingua materna in senso stretto) e cioè una lingua relazionale e regionale, non necessariamente identica a quella nazionale. C'è infine una terza lingua per trarre tutti i vantaggi dalla comunicazione globale - molto probabilmente l'inglese -, questo dal punto di vista pratico porterebbe le nazioni in grado di ospitare un pluralismo sia linguistico sia culturale, una contaminazione dei saperi per la nostra soppravivenza -anche se soltanto uno dei gruppi coesistenti vede riconosciuta la sua supremazia Effettivamente ci possono essere dei problemi in questa contaminazione linguistica, ma proprio in questa dimensione sta una risorsa simbolica per l'espressione di esperienze e saperi che altrimenti rimarebbero nascosti. Senz'altro non è facile far tornare in vita un idioma, una lingua estinta o seriamente minacciata dall'estinzione; ma il tentativo può riuscire quando dalla maggioranza dei parlanti è considerato decisivo per la loro stessa vita, come insegna il caso dell'Ivrit (ebraico moderno). Non sarà mai il caso del Tarùsc. Bisogna però considerare che se si sceglie la strada della conservazione pura, che serve soltanto per distinguersi, allora la restaurazione servirà solo ai linguisti che studiano la diversità dei sistemi linguistici. Da dove veniamo…. Taurisc..Leponzi e/o Voconzi..i ed il Tarùsc… penso che non possa essere solo un idioma corporativo potrebbe essere anche la rimanenza ( il resto di una parlata) di una lingua scomparsa. Il territorio va dal Merguzzolo ad Invorio/ Borgomanero ndr. “In particolare i laghi, di Mergozzo, Orta e la sponda piemontesse del lago Maggiore da Fondotoce ad Arona con al centro il Mottarone che fa da spartiacque delle varie parlate del Tarùsc.
Un po’ di storia del territorio. (*) L’insediamento antico del nostro territorio è provato dai ritrovamenti archeologici che vanno da Brisino a Cireggio, dove in località San Bernardo si sono rinvenuti frammenti fittili e litici della tarda età del bronzo e del ferro, e del monte Zuoli, dove si è individuato un altare protostorico e un possibile scivolo rituale. Tra i primi popoli stanziatisi nel Verbano - Cusio fino a tutto il II millennio a.C. si annovera tradizionalmente quello degli Osci di origine iberica, dal cui dialetto sarebbe derivato (da umacia = lago) il toponimo Humana-Umenia Vemenia, che si leggerebbe nella copia dell’antica carta itineraria militare, disegnata forse nel V secolo d.C. sotto l’imperatore Teodosio (collezionista nel ‘500 dal tedesco k Peutinger). All’inizio del I millennio a.C. un altro popolo migratorio: i Liguri, approdati cinque secoli prima dal nord Africa (Libia?) in Gallia, alle foci del Rodano, e dilagatisi anche verso le vicine coste, montagne e pianure della nostra penisola, pervengono con la tribù dei Leponzi (Voconzi?), staccatisi dalla più grande dei Taurisci (= abitanti dei monti), nelle nostre zone, suddividendosi nelle tribù minori dei Siconii (lungo il Sesia), degli Aconii (lungo l’Agogna superiore, la sponda verbanese del Mottarone, l’Ossola), degli Usii (lungo la Valstrona, Cremosina e le sponde del nostro lago, cui deriva il nome: lacus Usisu = Cusius). Nel VI secolo a.C., valicando i passi alpini vicini e battendo gli Etruschi sul Ticino, i Celti invadono le pianure piemontesi e lombarde e la loro tribù degli Insubri fonda Mediolanum nel 400 a.C. I Romani li sottomettono alla fine del III secolo a.C. e, costruendo le strade per la nuova provincia (delle Alpi Attreziane?), attraversano la nostra zona sulla sponda orientale del lago con l’importante via Settiminia (da Settimio Severo), che da Genova per Tortona-Mortara-Novara-Omegna-Domodossola-Passo del Sempione conduce nei territori dei Franchi. Nel 390 d.C. giungono in Italia i due fratelli di Engina: i santi Giulio e Giuliano, autorizzati dall’imperatore Teodosio a diffondere il cristianesimo. Le invasioni barbariche dei nostri luoghi riprendono nel 437 con gli Alani unitisi ai Vandali di Genserico, che ci avrebbe accordato il privilegio di promulgare autonomamente le leggi (da qui, secondo la tradizione, il motto dialettale “la nigua la va in su e la leg la fuma nui”), e si susseguono nel 452 con gli Unni di Attila. Nel 488 il territorio non solo del vergante subì l’invasione dei Burgundi di Gundebaldo, che si ripresentano nel 539 con Teodeberto; nel 550 è la volta dei Franchi Alemanni e nel 569 dei Longobardi di re Alboino che, entrati in Italia da Cividale del Friuli, conquistano Milano, Roma e fanno di Pavia la loro sede regale, suddividendo i territori assoggettati in ducati, ad esempio Lomello, Pombia, Stazzone, Oxilla, Omula (Omegna, sede politica e l’isola di San Giulio sede militare). Nel 774 ritornano i Franchi di Carlo Magno, chiamati dal Papa per combattere Desiderio, l’ultimo re dei Longobardi. Fatto prigioniero quest’ultimo, s’impadroniscono del regno sino all’888. Durante le lotte intestine novaresi, la fazione ghibellina (pars rotunda) vincente i Tornielli effettua nel 1311 una spedizione armata contro quella guelfa (pars sanguigna) dei Brusati, rifugiatisi nella nostra zona,dopo la cacciata da Novara. L’anno dopo molte cittadine si costituiscono in comuni liberi con propri statuti, approvati solo nel 1384 da Gian Galeazzo Visconti. Nel 1361 i Visconti, si insediano a Massino, distruggono il castello sul poggio Mirasole di Omegna e le restanti opere difensive di Crusinallo, i cui nobili, già emigrati in parte nel precedente secolo, si disperdono o si imborghesiscono in loco. Scacciati dalla valle Anzasca, dove sfruttavano le miniere d’oro, si rifugiano a Chesio di Valstrona nel 1425 i Cani, parenti di Franco Cane, condottiero dei Visconti e padrone del novarese fino al 1412, anno in cui morì. Nel 1447, morto Filippo Maria Visconti, viene proclamata la Repubblica Ambrosiana che riconosce Omegna terra libera. Nel 1450 è però infeudata, come la Valstrona, ai Borromei, ai quali Ludovico il Moro la toglie nel 1494. Alla sua caduta, cinque anni dopo, viene ridata ai Borromei in cambio di una grossa cascina alle porte di Milano. Ludovico il Moro sollecitò nel 1490 ai podestà di Omegna e di Ornavasso la costruzione di un ponte sul torrente Strona (= ponte antico?), essendovi affogato uno dei suoi cavalieri durante un guado. Tra il 1514 e il 1598, domesi, svizzeri mercenari dei Borromei, soldataglie di Cesare Maggio e spagnoli a turno taglieggiano, saccheggiano, distruggono nel Verbano e nel Cusio (come non lo è stata negli anni della pestilenza: 1344, 1347, 1361, 1513, 1630, e della carestia: 1231, 1364). Con la cessione dell’Austria del ducato di Milano, che sul Verbano – Cusio vantavano diritti feudali ceduti dai Crusinallo a Novara (1221) e quindi, attraverso i Visconti e gli Sforza, a Milano, anche il vergante ne segue le sorti fin quando, con il trattato di Worms del 1743, passa ai Savoia. Nello stesso periodo il novarese fu percorso dalla ventata libertaria e repubblicana conseguente alla rivoluzione francese. Nel 1796 fallì un complotto del pallanzese Azari, che intendeva sollevare la regione per farne un dipartimento autonomo. Nel 1798 il generale francese Léotaud sbarcò a Pallanza con una schiera di armati, occupò Cannobbio e parte dell’Ossola; ma finì sbaragliato dalle truppe sabaude del marchese d’Oncieux tra Gravellona e Ornavasso. All’alba del 29 maggio venne fucilato ad Omegna il ventenne milanese Graziano Belloni, fatto prigioniero in quel frangente. All’esordio di Napoleone il Cusio fu occupato dai francesi, poi dagli austriaci. In seguito il Cusio- Verbano, sottoposto al V distretto con sede ad Arona, fece parte del dipartimento dell’Agogna nella Repubblica Cisalpina (1800); con il regno italico voluto da Bonaparte (1805) fu sottoposto alla vice prefettura aronese. Sconfitto Napoleone, nel 1815 il congresso di Vienna sancì la restaurazione dei Savoia; gli abitani del Cusio-Verbano conservatori per indole salutarono con gioia il ritorno di Vittorio Emanuele I. Nel 1817 fu definita la questione dei vescovi, esautorati e gratificati con il titolo puramente onorifico di principi. Nel 1836 il colera fece molte vittime. Lo Statuto Albertino del 1848 fu accolto con esultanza e luminarie. Seguirono le guerre d’indipendenza contro l’Austria: quella del 1848/49 con la disfatta sabauda a Novara; la successiva del 1859, vinta dai francopiemontesi. Proclamato il Regno d’Italia, anche il Cusio – Verbano entrò a farne parte. Dal 1864 al 1888 fu costruita la ferrovia Novara Gozzano-Omegna- Domodossola, di 89 km: una folla entusiasta salutò il passaggio del treno inaugurale. Da metà ‘800 vennero impiantate in paese importanti fabbriche, trasformando il verbano in un vivace centro industriale e tutistico , incrementandone la popolazione con mano d’opera immigrata. Nel 1918 la spagnola decimò la popolazione per la totale mancanza di assistenza sanitaria, difficile la ripresa dopo il primo conflitto mondiale, la zona occidentale del lago Magggiore e il Cusio-Verbano, fu per lunghi anni abbandonata dal potere centrale. Zona depressa molti concittadini dovettero abbandonare la propria casa ed emigrare chi nelle Americhe chi in nord Europa. La seconda guerra modiale termina con la presa di coscienza della popolazione e la disfatta del nazi-fascismo. La prima repubblica nasce da queste parti , “40 giorni di libertà”. Il resto è la storia dei nostri giorni…. )

Immunitas e communitas. Si nasce, si cresce e si muore ovunque. Quello che non si capisce, da qualche tempo a questa parte, è come tutti vogliono raccogliere cose che nessuno ha piantato.
Si muore ovunque, ma la morte nei paesi è più visibile. La morte paesana non è solo un avvenimento privato che riguarda la famiglia del defunto e i suoi amici, è anche un evento sociale. I manifesti funebri restano per mesi sopra i muri, involontarie inserzioni pubblicitarie della nostra precarietà ed esercizio di ragioneria: stanno li a segnalarci che un altro se n’è andato e d’ora in poi bisogna andare avanti con uno in meno. Più il paese è piccolo e più il funerale è affollato, specialmente quando a morire è una di quelle persone che potremmo definire persone-paese, cioè persone che hanno vissuto come se la loro vita non fosse segnata dai confini del loro corpo, ma fosse un alito, un frammento della vita del paese. Una vita all’ aperto, tutta giocata nello spazio pubblico pur non avendo mai ricoperto alcun ruolo di rilievo. La vita di queste persone era caratterizzata da un’estrema apertura alla vita degli altri, quasi che fosse indistinguibile dal la propria. d è proprio questo elemento che rende la oro scomparsa particolarmente grave. Ormai anche nei paesi si tende ad adottare stili di vita che sono cattive imitazioni dello stile cittadino. Sembra prevalere la logica del farsi i fatti propri, del chiudersi in casa, come se lo spazio esterno fosse un luogo in cui niente si può prendere e niente si può dare. La vita «immunitaria» è quella che si chiude all’ interno dei propri confini, quella di chi disprezza le persone che non capisce. La vita ispirata all’immunitas si va facendo strada specialmente tra i giovani, cioè le persone che con la loro esuberanza biologica dovrebbero più di altre costruire «abusivamente», andare oltre i volumi ed i confini del proprio corpo. Molti ragazzi e ragazze sembrano immunizzati dal contatto con gli altri, come se la loro vita fosse una faccenda in cui nessuno può mettere il naso. Le persone-paese parlano di tutti, sanno la vita di tutti. In questo modo, senza volerlo e senza farci caso, tengono in piedi un’idea di civiltà che altrimenti sarebbe completamente smarrita. Ovviamente queste persone esistono anche nelle città, ma la città è un luogo in cui è difficile espletare il proprio senso della communitas. in Città ti conosce soltanto chi ha un qualche motivo per conoscerti. In città puoi anche essere conosciuto da molti, ma in quel caso sei nella sfera della fama. In paese sei sempre conosciuto da vicino. Non sei famoso, sei uno di cui gli altri credono di sapere tutto. Sei uno che crede di sapere tutto. Naturalmente si tratta di finzioni, ma sono finzioni in cui è utile credere, perché tengono invita un senso cerimoniale, perché ti fanno scendere in strada non perché devi andare a divertirti o a lavorare, ma semplicemente per stare con gli altri a condividere la strana avventura del tempo che passa. Cosa diversa per chi si ritiene insostituibile. A volte si ha l’impressione che certi problemi esistono fin quando ci sono persone che se ne occupano. Nei paesi più che nelle città ci sono persone che si ritengono indispensabili per risolvere i problemi della comunità. Presidiano la piazza o gli uffici comunali come se non potessero vivere senza le faccende di cui si occupano. Non fanno vacanze, non vanno al cinema, non leggono libri, Hanno sempre qualcosa da risolvere, come se il paese fosse un rebus e non un luogo del mondo che a volte va semplicemente lasciato in pace. Queste persone possono esser più o meno lodevoli, più o meno animate da sincera passione civile. Quello che non convince, in taluni casi, è la natura ossessiva del loro impegno. E questo diventa un problema: cosa fare quando il problema si risolve? Se ne può trovare un altro, ma così facendo si accede a una visione infermieristica della realtà, come se il mondo in cui ci è dato vivere fosse un eterno malato e noi dobbiamo stare sempre vigili al suo capezzale. Forse un buon modo di vivere l’impegno politico è quello di non essere prigionieri dei problemi di cui ci si occupa. La prigionia spesso comporta uno stato allucinatorio. Uno scarafaggio su un muro diventa un mostro che ci squarcia le costole. E così negli italici paesini se si va a parlare con un sindaco o un segretario di partito pare sempre che siano alle prese con problemi giganteschi. La chiusura nella propria comunità fa sempre questo brutto scherzo di renderci schiavi delle questioni di cui ci occupiamo. E lo schiavo tende sempre ad ingigantire il ruolo del suo padrone. Noi non dobbiamo essere gli schiavi dei problemi, ma esercitare su di loro una qualche padronanza, la padronanza che ci viene dal fatto che tutti i problemi di questo mondo, a parte la morte, sono relativi. Uno che si propone come salvatore della sua comunità rischia di diventate egli stesso un problema. Ci sono due movimenti per ovviare a questa situazione. Uno è la capacità svolgere un’azione centripeta, cioè concentrarsi pragmaticamente sul fuoco della questione e l’altro è spinta centrifuga. cioè la capacità di assumere la propria questione in un’ ottica più larga. Si realizza in questo modo una sorta andirivieni, come se il problema per essere risolto richiedesse una capacità di avvicinarsi adesso, ma anche di allontanarsene. Applicando questa cinetica dell’ impegno politico presto si vede qualche frutto. Uno che tiene la vigna alla fine deve fare il vino e poi stare attento a non ubriacarsi. Chi fa politica deve trasformarsi in un contadino e abitare le sue terre e farle fruttare per sé e per tutti. Quello che non si capisce, da qualche tempo a questa parte, è come tutti vogliono raccogliere cose che nessuno ha piantato.

Stesura incompleta
1a correzione giugno 2010.

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