PREFAZIONE
ARGOMENTI
I CAPITOLO
Brisino ed il suo Tarùsc
Brisino ed il suo Tarùsc. Cosa è rimasto del nostro mondo contadino.
II CAPITOLO
Le norme.
III CAPITOLO
Il Dizionario Tarùsc, Italiano, Francese e Italiano Tarùsc e Tedesco. Alcune frasi in Tarùsc. Lettera di un prigioniero di guerra del 1943.
IV CAPITOLO
Curiosità.
Un idioma, una lingua e la sua scomparsa. Un pò di storia. Perché i Mapuche.(*)
V CAPITOLO
Pesi, misure e monete nel tempo.
VI CAPITOLO
Meteorologia.
VII CAPITOLO
Brisino ieri.
VII CAPITOLO
Brisino ieri.
IX CAPITOLO
Le feste, tra il sacro ed il profano.
X CAPITOLO
I sopranomi.
XI CAPITOLO
I segreti, le erbe delle nonne.
XII CAPITOLO
La cucina nei giorni di festa dal 1790 al 1990.
XIII CAPITOLO
Le ricette di “Mamma Gin”.
XIV CAPITOLO
Favole e Filastrocche.
Favole Dall’ A alla Z. e le Filastrocche.
Conclusioni.
Ringraziamenti.
Bibliografia
Nota per i navigatori: vi ringrazio per un vostro eventuale commento, sono gradite sull’argomento osservazioni ed eventuali aggiornamenti, se conforme allo spirito della raccolta dei documenti. Grazie
I primi appunti risalgono al 1950. Gli ultimi aggiornamenti sono del maggio 2010. Il lavoro si divide in:
Documenti di ricerca sul Tarùsc,
La comunità Brisinese,
I costumi, nei passati tre secoli della comunità .
Gli appunti, della mia bisnonna, delle mie nonne e di mia madre, quattro generazioni e due secoli.
Raccolta, sulle erbe, medicamenti, le favole e le filastrocche.
Troverete la storia di Brisino, il gergo, le feste, il tempo, le misure, gli usi, i costumi, la cucina, le erbe, le cure mediche, le fiabe e le filastrocche. Da dove ho incominciato, dalle storie di un vecchio lusciat e raccogliendo notizie e materiale.
Vedi bibliografia, utilizzando tutto Il materiale inerente alla ricerca sul dialetto. Breve elenco di sintesi di lavori già effettuati in passato potete consultarli in archivio.
Come trovare i testi e gli argomenti trattati, andare nel sito www.mimmoerta.it nella pagina dell’archivio troverete l’indice per argomenti in ordine alfabetico, “archivio1.htm” e poi sul numero che vi interessa
AL TURÙSC,
trattasi di un idioma, di una lingua storica, dell'alto vergante tra la provincia di Verbania e Novara, un idioma scomparso parlato fino al 1960, l'ho imparato da Giunin e da Leon intorno al 1950. Un idioma, una lingua, codificata scritta con tanto di vocabolario proprio di alcuni paesi dell'alto vergante, in particolare la fascia che va da Stresa, Levo, Gignese, Vezzo, Nocco, L'Alpino, Brisino, Magognino, Stroppino, Carpugnino, Graglia, Brovello, Massino ( dove esiste un monumento all’ombrellaio), Nebbiuno, Colazza, ecc., chiamata TARUSCH , una lingua speciale messa insieme in 400 anni dagli ombrellai che da li si muovevano per tutta l'Europa fino alla Russia ed in Sud America (alcuni anni fa mi è capitato di parlarlo con un antiquario di origine dell’alto vergante, al mercato di Sant'Elmo a Buenos Aires) è un misto di una di lingue e con l'italiano non ha niente o poco da spartire io purtroppo quando la mia ultima zia ci ha lasciato non lo parlo più, uso ancora poche parole con mia moglie quando sono estremamente allegro, non credo sia più vivente, nessuno che utilizza il Tarùsc comunemente è un vero peccato..
sabato 26 marzo 2011
BRISIN ed il suo Tarùsch
.
1790 - 1990
Idioma dell’alto vergante parlato sino al 2000. Ancora oggi qualcuno se lo ricorda, storia di una comunità che è scomparsa, emigrazione verso le città; Torino, Genova, Milano, Napoli ed in giro per il mondo in particolare in Nord Europa, Sud e Centro America. Il tutto si intreccia con la storia della mia famiglia, usi e costumi di un epoca che non c’è più.
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1790 - 1990
Idioma dell’alto vergante parlato sino al 2000. Ancora oggi qualcuno se lo ricorda, storia di una comunità che è scomparsa, emigrazione verso le città; Torino, Genova, Milano, Napoli ed in giro per il mondo in particolare in Nord Europa, Sud e Centro America. Il tutto si intreccia con la storia della mia famiglia, usi e costumi di un epoca che non c’è più.
PREFAZIONE - BRISIN ED IL SUO TARUSCH
Prefazione
Argomenti
I Capitolo
Brisino ed il suo Tarùsch o Tarùsc
Brisino ed il suo Tarùsc. Cosa è rimasto del nostro mondo contadino. (*) 1950
II Capitolo
Le norme.
Origine dei vocaboli e frasi idiomatiche. Pronomi ed aggettivi possessivi. La terminologia dei numeri. Vocaboli d’uso comune. La corretta pronuncia del Tarùsc. Particolarità ed Aggiornamenti. Glossario. Emigranti. Il dizionario etimologico. La famiglia. La Crugia, la casa. Zapin, utensili ed arredo. Gli animali, la loro casa e la cascina. Gli alimenti. L’arcumenta, l’abbigliamento. Il corpo umano. Autorità e paesi. Artusc, mestieri. L’ombrellaio. Strumenti dell’ombrellaio e del mulita. Gergo dei venditori ambulanti nei mercati. Tempo, misure e monete. Numeri. Al taruscin alla patafièta, (all’osteria). Mager e magera. Verbu e part, avverbi, particelle. Ausiliari e preposizioni. Verbi. La coniugazione dei verbi. 1958
III Capitolo
Il Dizionario
Tarùsc, Italiano, Francese e Italiano Tarùsc e Tedesco. Alcune frasi in Tarùsc. Lettera di un prigioniero di guerra del 1943. (*) 1960
IV Capitolo
Curiosità.
Un idioma, una lingua e la sua scomparsa. Un pò di storia. Perché i Mapuche.(*) 2000
V Capitolo
Pesi, misure e monete nel tempo. (*) 1968
VI Capitolo
Meteorologia (*) 1978
VII Capitolo
Brisino ieri.
Brisino e la sua storia. Brisino ieri. Precisazioni. La preistoria con un po’ di pazienza. La storia quasi vera. I documenti. La popolazione del vergante. I pastori nella comunità. Anagrafe dal 1799 al maggio 2006. Cronistoria. Statuto e storia della Pro Loco. Una storia semiseria. 1940. 1970
VIII Capitolo
Brisino oggi.
Brisino oggi, poggio sul lago Maggiore. Brisino. L’isola dei pescatori. Isola Bella. Isola Madre. Santa Caterina del Sasso. Villa Pallavicini. Mottarone. Villa Taranto. Museo dell’ombrello. Rocca D’Angera. Lago D’Orta. Macugnaga. Dal giardino dell’Alpinia. Stresa. 1990
IX Capitolo
Le feste, tra il sacro ed il profano.
Le feste tradizionali, un po’ di storia. Le feste tra il sacro ed il profano. Il 17 Gennaio. 2 e 3 Febbraio. 13 Giugno. Per golosi e neo-pagani. Il Carnevale. La quaresima. Periodo Pasquale. La vera festa del paese. San Sebastiano. 29 Giugno. La festa del paese 15 agosto. San Martino. Ogni santi ed morti. Natale. Curiosità. (*) 2000
X Capitolo
I sopranomi.
Introduzione. Paese. Famiglie. Taruscin. Luoghi di lavoro. (*) 1958
XI Capitolo
I segreti, le erbe delle nonne.
Il mondo contadino. Le erbe delle nonne, i segreti e l’utilizzo in cucina. Oltre il confino. Curiosità su curiosità. Come conservare le erbe aromatiche. Le erbe. Calendario per la raccolta. Classificazioni 1958
XII Capitolo
La cucina nei giorni di festa dal 1790 al 1990.
Ricette della mia bisnonna, della nonna, di mia madre e delle mie zie Santina e Domenica. La cucina. Introduzione. Il pane. L’aglio, il porro, lo scalogno la cipolla, nella cucina di mia madre. Gli antipasti. I primi piatti. Il riso. La pasta. I gnocchi. Turnela o polenta. Burro e salse. I secondi. Uova. Le frittelle. Fritti. Vegetali, cereali e legumi. Le insalate. Le verdure sotto vetro. Tuberi, funghi e verdure essiccate. Dolci, Caffè, liquori e tisane. Piccolo dizionario. 1972
XIII Capitolo
Le ricette di “Mamma Gin”.
Introduzione. I rjmedii. Proemio. Avvertimento. Rjmedii principali. 1°Parte. (*) 2°Parte.(*). Calendari per la raccolta delle erbe. I rimedi di Campagna. I rimedi per gli animali. (*) 1958
XIV Capitolo
Favole e Filastrocche.
Favole Dall’ A alla Z. e le Filastrocche (*) 1948
Conclusioni (*) 2007
Ringraziamenti (*) 2007
Bibliografia 2000
(*) da terminare, ° inserito
Nota per i navigatori: vi ringrazio per un vostro eventuale commento, sono gradite sull’argomento osservazioni ed eventuali aggiornamenti, se conforme allo spirito della raccolta dei documenti. Grazie
I primi appunti risalgono al 1950. Gli ultimi aggiornamenti sono del maggio 2010. Il lavoro si divide in:
- Documenti di ricerca sul Tarùsc,
- La comunità Brisinese,
- I costumi, nei passati tre secoli della comunità .
- Gli appunti, della mia bisnonna, delle mie nonne e di mia madre, quattro generazioni e due secoli.
- Raccolta, sulle erbe, medicamenti, le favole e le filastrocche.
Troverete la storia di Brisino, il gergo, le feste, il tempo, le misure, gli usi, i costumi, la cucina, le erbe, le cure mediche, le fiabe e le filastrocche. Da dove ho incominciato, dalle storie di un vecchio lusciat e raccogliendo notizie e materiale. Vedi bibliografia, utilizzando tutto Il materiale inerente alla ricerca sul dialetto. Breve elenco di sintesi di lavori già effettuati in passato potete consultarli in archivio.
Come trovare i testi e gli argomenti trattati, andare nel sito nella pagina dell’archivio troverete l’indice per argomenti in ordine alfabetico, “archivio1.htm” e poi sul numero che vi interessa
* inseriti Questi argomenti sono trattati in sintesi e potete consultarli sotto la voce archivio.htm
Introduzione 1.I dialetti. 2.Dialetto: nome e concetti. 3.I dialetti dall’unità ad oggi. 4.I dialettalismi . 5.L’italiano popolare e i dialetti e le loro origini. archivio157.htm
1. I dialetti e le loro origini. 2. Le origine remote dei dialetti. 3. Le lingue dell’Italia pre-romana. 4. Strutture e varietà del latino. 5. Innovazione del latino volgare archivio158.htm
1.L’Italiano regionale. 2. Il concetto di Italiano regionale. 3.L’Italiano regionale negli studi scientifici. 4. Le principali varietà regionali I livelli di analisi archivio159.htm
1. Diettologia sociologica. 2. Problemi di definizione. 3. Modelli della diettologia sociologica. 4. Costrutti della diettologia sociologica. 5. L’interfaccia tra sociologia e storia. 6. La correlazione tra fatti linguistici e storici. 7. Il rapporto tra diatopia, distratia e diafasia nello studio della variazione. archivio160.htm
1. Come si fa un indagine dialettale sul territorio. 2. Modalità di raccolta delle informazioni. 3. L’Osservazione. 4. L’Intervista. archivio161.htm
1. L’antoponimia. 2. I Prenomi. 3. I Cognomi. 4.Il dialetto nei cognomi Italiani. 5. I sopranomi. 6. I sopranomi di famiglia archivio162.htm
1. Il Piemonte. 2. L’assetto linguistico nella regione. 3. La grafia piemontese. 4. Gli sviluppi diacronici. 5. Morfologia . 6. Cenni di sintassi. Elementi del lessico. 7. Cenni su antroponimia e toponomastica. 8. Cenni sulle varietà locali. 9. Testi antichi. 10. La letteratura in piemontese. 11. Le traduzioni, le pubblicazioni periodiche, i concorsi letterari e i corsi di piemontese. archivio163.htm
1. La svizzera italiana. 2. Profilo regionale. 3. Il quadro sociolinguistico archivio164.htm
1. Dialetti e scuola. 2. La ricerca di un metodo 3. L’imbratto del vernacolo e lo zelo degli insegnanti: il dialetto nei programmi ministeriali. 4. La riforma gentile: la tradizione folklorica e la traduzione. 5. La questione dell’insegnamento della lingua: dialetti tra alienazione e giacobinismo linguistico. archivio165.htm
1. Dialetto e gergo. 2. Il gergo: generalità. 3. Rapporti tra gergo e dialetti. 4. Gergalismi nella lingua. 5. Scrivere in gergo. archivio166.htm
1. I dialetti italiani nel Mondo. 2. Caratteri. 3. I dialetti italiani negli USA. 4. I dialetti italiani in America Latina. 5. Un episodio messicano: la colonia Chipilo. archivio167.htm
(*) in via di stesura. Prima correzione dicembre 2007. Riprendo il lavoro dopo 7 anni dalla pubblicazione delle bozze non corrette. La verità, speravo in un aiuto Fate sempre in tempo. La prossima correzione al termine dell’inserimento del resto degli appunti. Cliccare sul capitolo per la rapida visione.
Buona lettura.
1790* - 1990**.
"Al prumm dal lungon a Carpignin, a truà l'Casér senza an bergnin", "Il primo dell'anno a Carpugnino, a cercar padrone, senza un soldino".
Questa scritta è posta nella piazza della chiesa di Carpugnino il paese d’origine della mia bisnonna “Mamma Gin a pochi chilometri da Brisino”
(*1790 la nascita della mamma di mia bisnonna, **1990 la scomparsa di mia madre)
A mia moglie Rita
per l’infinita pazienza.
Ascoltami, ho una storia affascinante da raccontarti. C’era una volta un idioma per noi una lingua “il Tarùsc”, parlata dai miei vecchi. Molte delle parole che troverai le ho apprese, da mio padre, da mia madre, dalle mie zie Domenica e Santina, dagli anziani del paese, dal Tunin un vecchio saggio amico di mio bisnonno, “che non ho conosciuto”, ma che ne ho sentito parlare per le sue imprese di giovane garibaldino; giorno dopo giorno ascoltando le loro storie, nelle calde giornate estive alla fine degli anni 40 e dal cugino Mario che, oltre conoscere il Tarusc aveva una grande curiosità e conoscenza della lingue europee. Non troverai tutto, ma un piccolo vocabolario con molte particolarità, delle frasi idiomatiche ed una piccola grammatica. Il resto è la storia di Brisino, di ieri e di oggi con l'aggiunta via via i dati raccolti negli ultimi anni. I dati sono stati tratti dagli archivi della Parrocchia, dalla Biblioteca Comunale, dal museo dell’ombrello e dai molti autori che hanno scritto sulle tradizioni e sui mestieri del vergante. Il ricettario delle erbe della nonna, “oltre il confine”, perché oltre al confine, nel girovagare per l’Europa e per il mondo ho apprezzato le vecchie buone cose delle nostre tradizioni. Le ricette della nonna e la ricetta come fare il formaggio di capra. Le ricette di mia madre. La cucina nei giorni di festa. Le ricette di “Mamma Gin” la mia bisnonna, ricettario “rimedji”, per sanare con pochissima spesa tutte sorte d’infirmita Interne ed esterne, invecchiate e passate sino al presente per incurabili, in pratica come si curavano nel ’700 con le erbe, con l’aglio e la cipolla. Intanto che cos'è il “Tarùsc”. Un idioma, dei vecchi dell'alto vergante, forse sarebbe meglio dire, la lingua della sponda occidentale del lago Maggiore che va da Meina a Baveno, passando da Brisino, Gigniese, Massino, fatta rivivere ed arricchita “non solo” dagli ombrellai, in cerca di fortuna per l'Italia e nel mondo; forse solo un modo come riconoscersi, per distinguersi oppure quello che io penso il resto di una lingua/dialetto/vernacolo, scomparsa. Nel 1965 a Buenos Aires al mercato delle cose vecchie di Sant Elmo ho avuto il piacere di incontrare un anziano signore e di ascoltare il nostro idioma e l’ultima volta nel 2006 sempre a Beuonos Aires, il figlio dell’Alfredo, che aveva ereditato dal padre, la passione del Tarùsc e delle buone vecchie cose
del vergante.
NOTA
“ Si sente ripetere che una società non possa esistere senza una memoria di quanto è avvenuto nel passato: la selezione degli elementi di questo da conservare serve a trasmettere da una generazione all'altra una storia «dotata di senso», ed in quanto tale, rileva Yosef Hayim Yerushalmi, sostiene “quel complesso di riti e di valori che costituisce per un popolo il senso della propria identità e del proprio destino”. Diventeranno oggetto di trasmissione solo quei momenti tratti dal passato che vengano sentiti come educativi ed esemplari per la hallakhah di un popolo, così come è vissuta in quel momento; il resto della "storia" cade, si può dire quasi letteralmente, fuori dal sentiero» (hallakhah è parola ebraica che indica il sentiero su cui si cammina, la strada). In tal modo l'esercizio della memoria (come e cosa ricordare) è strettamente connesso a quello dell'oblio, come sottolineava Nietzsche in un brano molto noto: “è del tutto impossibile vivere in generale senza dimenticare [...] La serenità, la buona coscienza, l'allegra attività, la fiducia nell'avvenire, tutto ciò dipende, nell'individuo come nel popolo [...] dal fatto di sapere tanto bene dimenticare al momento giusto, quanto bene ricordare al momento giusto; dipende dal sapere sentire con istinto potente quando sia necessario sentire storicamente e quando non storicamente [...] L'antistorico e lo storico sono ugualmente necessari per la sanità di un individuo, di un popolo o di una civiltà”.
E qualche anno dopo Ernest Renan, nella sua famosa conferenza tenuta alla Sorbona l'11 marzo 1882 su Che cos'è una nazione?, ricordava che «l'oblio, e dirò persino l'errore storico, costituiscono un fattore essenziale nella creazione di una nazione, ed è per questo motivo che il progresso degli studi storici rappresenta un pericolo per le nazionalità”.
Le battaglie del presente.
Ovviamente non si tratta di un'operazione indolore: “La memoria e l'oblio - ha scritto Remo Bodei - non rappresentano [...] terreni neutrali, ma veri e propri campi di battaglia, in cui si decide, si sagoma e si legittima l'identità, specie quella collettiva. Attraverso una serie ininterrotta di lotte, i contendenti si appropriano della loro quota d'eredità simbolica del passato, ne ostracizzano o ne sottolineano alcuni tratti a spese di altri, componendo un chiaroscuro relativamente adeguato alle più sentite esigenze del momento”. Inoltre, se la memoria serve a fondare una comunità dotandola di unità di passato e di comunità di intenti, questa operazione può anche compiersi con un'ossessiva ripetizione di fratture e torti che spesso affondano le radici in un tempo remoto, individuando un nemico presunto, da combattere ed espellere dal corpo sano, e identitariamente omogeneo, della nazione.
Questa lunga introduzione al numero 10/2004 di Novecento, serve a mostrare l'opportunità della scelta di dedicare un numero monografico a Fare memoria, costruire identità: rispetto al dilagare del termine e degli inviti alla memoria, ricorda il direttore Luca Baldissara nell'introduzione, la rivista ha deciso di «contribuire ad illuminare criticamente alcuni snodi concettuali e metodologici del ricorso alla memoria (sia come fonte che come oggetto dell'indagine), e di riflettere sugli usi pubblici e sulle manipolazioni politiche cui è sottoposta nell'arena del dibattito politico-culturale”.
Scelta quanto mai necessaria, quella di restituire complessità e spessore critico al termine, al di fuori di ogni ingenua od entusiastica sua proposizione. La memoria è sì un discorso del passato, ma che interagisce sempre con il presente, con l'attualità nella quale vive il testimone (sia esso un soggetto individuale, una comunità nazionale, una nazione, o anche un insieme di popoli che si tende a legare in un'identità sopranazionale, come nel caso dell'Europa): un'osservazione espressa con grande efficacia da Ascanio Celestini, nella bella intervista rilasciata a Luca Baldissara e Andrea Rapini sui rapporti fra il suo teatro, la storia e la memoria: “A me interessa molto di più il peso che ha oggi la memoria per le persone. A me interessa quello che succede oggi. E' chiaro che chi intervisto mi spiega il presente attraverso il passato, ma è del presente che parla! [...] Il passato sta lì perché altrimenti non riuscirebbe a gestire le immagini che ha oggi nel presente, ma è del presente che parla». E anche Enzo Traverso, nel suo saggio su Storia e memoria. Gli usi politici del passato (che insieme a quelli di Fabio Dei su Antropologia e memoria e di Emanuela Fronza su Diritto e memoria compone la prima parte, di metodo, del numero), ricorda che «la memoria, sia individuale che collettiva, è una visione del passato sempre mediata dal presente”.
Del resto già da tempo gli storici hanno iniziato a parlare di un «eccesso di memoria» (Charles Maier), di un «boom della memoria” (Jay Winter), di un'«era del testimone» (Annette Wieviorka); alcuni, come Pierre Nora, curatore della monumentale opera su Les lieux de mémoire, hanno strettamente contrapposto la memoria e la storia, in quanto la prima «è un assoluto», mentre “la storia conosce soltanto il relativo”.
Una contrapposizione questa che peraltro non condivide Enzo Traverso: egli è ben consapevole che «la memoria singolarizza la storia. La sua percezione del passato è irriducibilmente singolare. Là dove lo storico vede una tappa di un processo, un particolare di un quadro complesso e mobile, il testimone può cogliere un avvenimento cruciale, lo stravolgimento di una vita». E tuttavia Traverso non solo ritiene che si sottovalutino i rischi di manipolazione e «sacralizzazione» che appartengono anche alla scrittura della storia, ma recupera l'utilità di un serio confronto degli storici con la memoria - individuale o collettiva che sia - purché questa venga ricondotta al suo «contesto più generale[...], inscrive [ndo] questa singolarità dell'esperienza vissuta in un contesto storico globale, tentando di illuminarne le cause, le condizioni, le strutture, la dinamica d'insieme».
La memoria infatti ha una sua specifica «temporalità», che lo storico può utilmente ricostruire andando a chiedersi per quali motivi, in quali circostanze, sotto quali influssi determinate memorie si impongano come egemoni ed altre vengano invece emarginate, se non definitivamente cancellate. Si riprenda ad esempio la stessa memoria della Shoah, che si è ormai imposta come elemento centrale di riflessioni sul Novecento (tanto da suscitare perentorie affermazioni sull'unicità di quell'evento che per lo storico o sono scontate, in quanto ogni evento è unico e particolare, o sono devianti, in quanto bloccano i meccanismi di comparazione così importanti per la narrazioni storica in quanto consentono di smontare gli avvenimenti, cercare connessioni non immediatamente percettibili e scontate, ricostruire genealogie): ebbene, fino agli anni Sessanta la consapevolezza di quell'evento era ben debole nella coscienza mondiale, tant'è che un lavoro fondamentale come quello di Hilberg su La distruzione degli ebrei d'Europa, uscito nella sua prima versione nel 1960, solo con gli anni Ottanta diventò opera di riferimento (in Italia è stato pubblicato, da Einaudi, solo nel 1995).
Storicizzare la memoria apre perciò importanti campi d'indagini per lo storico, certamente a patto che questo eviti di diventare “un semplice avvocato della memoria” e di perdere di vista il contesto generale, ma dando comunque per scontato che, “ a meno di riproporre una visione obsoleta (e illusoria) della storia come scienza positiva”, "assiologicamente neutra", si è ben costretti a riconoscere che tutto il lavoro storico veicola anche, implicitamente, un giudizio sul passato». Verso la stessa conclusione, in una singolare coincidenza d'analisi e di sensibilità, si muove anche Fabio Dei per quanto riguarda gli antropologi: al termine di un denso saggio, egli rileva che “ partecipare alle pratiche di costruzione della memoria pubblica e del patrimonio culturale, restando consapevoli dei complessi meccanismi che li costituiscono retoricamente e politicamente nel presente, è il difficile compito che accomuna oggi, a me pare, storici e antropologi”.
Traverso conclude il suo saggio ricordando che “ l'intrecciarsi della storia, della memoria e della giustizia è al centro della vita collettiva”, e che “ al punto di intersezione tra storia e memoria, c'è la politica “. Ma questa osservazione, che condivido, complica ulteriormente il quadro, perché la politica è una grande manipolatrice della memoria, la utilizza per raggiungere i propri fini, definisce i criteri di selezione tra le varie memorie che si confrontano in uno spazio ed in un tempo definito, stabilisce, a volte anche con leggi, l'obbligo a ricordare, incoraggia una memoria del passato che rafforzi le identità necessarie a sostenere i progetti del presente.
Come ricorda Emanuela Fronza nel suo saggio su Diritto e memoria. Un dialogo difficile, «tra le modalità di intervento giuridico che generano un'intersezione con la memoria, in particolare dei fatti che hanno caratterizzato la seconda guerra mondiale, possono individuarsi due tipologie principali: da un lato, l'adozione di legislazioni sul piano nazionale che istituiscono giornate per invitare le popolazioni a ricordare; dall'altro, delle normative adottate sul piano sopranazionale e nazionale, che puniscono la negazione, la minimizzazione o la giustificazione della Shoah». Sulla seconda operazioni l'autrice solleva giustamente seri dubbi, in quanto con essa si promuove «a ufficiale una e un'unica di quelle infinite interpretazioni» sempre possibili sui fatti storici.
Costruzioni identitarie.
Ma anche la scelta di un invito dall'alto alla memoria, a mio avviso, non è esente da rischi: se nessuno contesta, almeno apertamente, la scelta della Shoah come elemento da commemorare il 27 gennaio (e si tratterebbe comunque di capire quali specifiche conoscenze e interpretazioni della Shoah inducono le innumerevoli iniziative intraprese da enti pubblici e scuole in occasione di quella scadenza), una volta intrapresa la strada di stabilire per legge cosa è opportuno ricordare si aprono comunque delicati problemi, ad esempio quando si decide di estendere quell'invito ad avvenimenti più controversi o legati a specifiche situazioni di storia nazionale (si pensi ad esempio alla legge italiana 30 marzo 2004, n. 92, che istituisce un "giorno del ricordo" in memoria delle vittime delle foibe, dell'esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale”). In ogni caso i rischi di manipolazione istituzionale della storia - e di ritualizzazione e svuotamento di significato della memoria - sono elevatissimi, e dovrebbero spingere a giudicare con grande prudenza l'istituzione di giornate della memoria, quale che sia il contenuto del ricordo che si vuole imporre per legge.
La costruzione identitaria è del resto sempre un'operazione complessa e necessariamente manipolatoria: lo dimostrano i saggi sull'Europa e sull'utilizzazione del discorso storico nel definire lo spazio europeo di Luca Scuccimarra, Stefano Petrungaro e Patrick Hyder Patterson o, su un altro versante, quello di Raya Cohen sul discorso pubblico israeliano, nel quale si sottolinea la cancellazione del passato europeo dalla storia ebraica insegnata in Israele, a tutto vantaggio del discorso sionistico e dell'esperienza della Shoah, lo evidenzia infine l'intervento fortemente polemico di Hans - Ulrich Wehler contro l'adesione della Turchia all'Europa: tra le varie argomentazioni che l'insigne storico tedesco porta a favore della sua tesi, quelle di carattere economico, sociale, politico si mescolano ad una forte valutazione del differente passato storico, per cui “ per circa 450 anni il musulmano Impero ottomano ha quasi ininterrottamente condotto guerre contro l'Europa cristiana portando addirittura il suo esercito alle porte di Vienna»: un esempio di come la memoria di un passato remoto possa orientare gli individui anche davanti a scelte strategiche relative all'oggi. “...
Stesura incompleta
Ultimo aggiornamento dicembre 2010
Argomenti
I Capitolo
Brisino ed il suo Tarùsch o Tarùsc
Brisino ed il suo Tarùsc. Cosa è rimasto del nostro mondo contadino. (*) 1950
II Capitolo
Le norme.
Origine dei vocaboli e frasi idiomatiche. Pronomi ed aggettivi possessivi. La terminologia dei numeri. Vocaboli d’uso comune. La corretta pronuncia del Tarùsc. Particolarità ed Aggiornamenti. Glossario. Emigranti. Il dizionario etimologico. La famiglia. La Crugia, la casa. Zapin, utensili ed arredo. Gli animali, la loro casa e la cascina. Gli alimenti. L’arcumenta, l’abbigliamento. Il corpo umano. Autorità e paesi. Artusc, mestieri. L’ombrellaio. Strumenti dell’ombrellaio e del mulita. Gergo dei venditori ambulanti nei mercati. Tempo, misure e monete. Numeri. Al taruscin alla patafièta, (all’osteria). Mager e magera. Verbu e part, avverbi, particelle. Ausiliari e preposizioni. Verbi. La coniugazione dei verbi. 1958
III Capitolo
Il Dizionario
Tarùsc, Italiano, Francese e Italiano Tarùsc e Tedesco. Alcune frasi in Tarùsc. Lettera di un prigioniero di guerra del 1943. (*) 1960
IV Capitolo
Curiosità.
Un idioma, una lingua e la sua scomparsa. Un pò di storia. Perché i Mapuche.(*) 2000
V Capitolo
Pesi, misure e monete nel tempo. (*) 1968
VI Capitolo
Meteorologia (*) 1978
VII Capitolo
Brisino ieri.
Brisino e la sua storia. Brisino ieri. Precisazioni. La preistoria con un po’ di pazienza. La storia quasi vera. I documenti. La popolazione del vergante. I pastori nella comunità. Anagrafe dal 1799 al maggio 2006. Cronistoria. Statuto e storia della Pro Loco. Una storia semiseria. 1940. 1970
VIII Capitolo
Brisino oggi.
Brisino oggi, poggio sul lago Maggiore. Brisino. L’isola dei pescatori. Isola Bella. Isola Madre. Santa Caterina del Sasso. Villa Pallavicini. Mottarone. Villa Taranto. Museo dell’ombrello. Rocca D’Angera. Lago D’Orta. Macugnaga. Dal giardino dell’Alpinia. Stresa. 1990
IX Capitolo
Le feste, tra il sacro ed il profano.
Le feste tradizionali, un po’ di storia. Le feste tra il sacro ed il profano. Il 17 Gennaio. 2 e 3 Febbraio. 13 Giugno. Per golosi e neo-pagani. Il Carnevale. La quaresima. Periodo Pasquale. La vera festa del paese. San Sebastiano. 29 Giugno. La festa del paese 15 agosto. San Martino. Ogni santi ed morti. Natale. Curiosità. (*) 2000
X Capitolo
I sopranomi.
Introduzione. Paese. Famiglie. Taruscin. Luoghi di lavoro. (*) 1958
XI Capitolo
I segreti, le erbe delle nonne.
Il mondo contadino. Le erbe delle nonne, i segreti e l’utilizzo in cucina. Oltre il confino. Curiosità su curiosità. Come conservare le erbe aromatiche. Le erbe. Calendario per la raccolta. Classificazioni 1958
XII Capitolo
La cucina nei giorni di festa dal 1790 al 1990.
Ricette della mia bisnonna, della nonna, di mia madre e delle mie zie Santina e Domenica. La cucina. Introduzione. Il pane. L’aglio, il porro, lo scalogno la cipolla, nella cucina di mia madre. Gli antipasti. I primi piatti. Il riso. La pasta. I gnocchi. Turnela o polenta. Burro e salse. I secondi. Uova. Le frittelle. Fritti. Vegetali, cereali e legumi. Le insalate. Le verdure sotto vetro. Tuberi, funghi e verdure essiccate. Dolci, Caffè, liquori e tisane. Piccolo dizionario. 1972
XIII Capitolo
Le ricette di “Mamma Gin”.
Introduzione. I rjmedii. Proemio. Avvertimento. Rjmedii principali. 1°Parte. (*) 2°Parte.(*). Calendari per la raccolta delle erbe. I rimedi di Campagna. I rimedi per gli animali. (*) 1958
XIV Capitolo
Favole e Filastrocche.
Favole Dall’ A alla Z. e le Filastrocche (*) 1948
Conclusioni (*) 2007
Ringraziamenti (*) 2007
Bibliografia 2000
(*) da terminare, ° inserito
Nota per i navigatori: vi ringrazio per un vostro eventuale commento, sono gradite sull’argomento osservazioni ed eventuali aggiornamenti, se conforme allo spirito della raccolta dei documenti. Grazie
I primi appunti risalgono al 1950. Gli ultimi aggiornamenti sono del maggio 2010. Il lavoro si divide in:
- Documenti di ricerca sul Tarùsc,
- La comunità Brisinese,
- I costumi, nei passati tre secoli della comunità .
- Gli appunti, della mia bisnonna, delle mie nonne e di mia madre, quattro generazioni e due secoli.
- Raccolta, sulle erbe, medicamenti, le favole e le filastrocche.
Troverete la storia di Brisino, il gergo, le feste, il tempo, le misure, gli usi, i costumi, la cucina, le erbe, le cure mediche, le fiabe e le filastrocche. Da dove ho incominciato, dalle storie di un vecchio lusciat e raccogliendo notizie e materiale. Vedi bibliografia, utilizzando tutto Il materiale inerente alla ricerca sul dialetto. Breve elenco di sintesi di lavori già effettuati in passato potete consultarli in archivio.
Come trovare i testi e gli argomenti trattati, andare nel sito nella pagina dell’archivio troverete l’indice per argomenti in ordine alfabetico, “archivio1.htm” e poi sul numero che vi interessa
* inseriti Questi argomenti sono trattati in sintesi e potete consultarli sotto la voce archivio.htm
Introduzione 1.I dialetti. 2.Dialetto: nome e concetti. 3.I dialetti dall’unità ad oggi. 4.I dialettalismi . 5.L’italiano popolare e i dialetti e le loro origini. archivio157.htm
1. I dialetti e le loro origini. 2. Le origine remote dei dialetti. 3. Le lingue dell’Italia pre-romana. 4. Strutture e varietà del latino. 5. Innovazione del latino volgare archivio158.htm
1.L’Italiano regionale. 2. Il concetto di Italiano regionale. 3.L’Italiano regionale negli studi scientifici. 4. Le principali varietà regionali I livelli di analisi archivio159.htm
1. Diettologia sociologica. 2. Problemi di definizione. 3. Modelli della diettologia sociologica. 4. Costrutti della diettologia sociologica. 5. L’interfaccia tra sociologia e storia. 6. La correlazione tra fatti linguistici e storici. 7. Il rapporto tra diatopia, distratia e diafasia nello studio della variazione. archivio160.htm
1. Come si fa un indagine dialettale sul territorio. 2. Modalità di raccolta delle informazioni. 3. L’Osservazione. 4. L’Intervista. archivio161.htm
1. L’antoponimia. 2. I Prenomi. 3. I Cognomi. 4.Il dialetto nei cognomi Italiani. 5. I sopranomi. 6. I sopranomi di famiglia archivio162.htm
1. Il Piemonte. 2. L’assetto linguistico nella regione. 3. La grafia piemontese. 4. Gli sviluppi diacronici. 5. Morfologia . 6. Cenni di sintassi. Elementi del lessico. 7. Cenni su antroponimia e toponomastica. 8. Cenni sulle varietà locali. 9. Testi antichi. 10. La letteratura in piemontese. 11. Le traduzioni, le pubblicazioni periodiche, i concorsi letterari e i corsi di piemontese. archivio163.htm
1. La svizzera italiana. 2. Profilo regionale. 3. Il quadro sociolinguistico archivio164.htm
1. Dialetti e scuola. 2. La ricerca di un metodo 3. L’imbratto del vernacolo e lo zelo degli insegnanti: il dialetto nei programmi ministeriali. 4. La riforma gentile: la tradizione folklorica e la traduzione. 5. La questione dell’insegnamento della lingua: dialetti tra alienazione e giacobinismo linguistico. archivio165.htm
1. Dialetto e gergo. 2. Il gergo: generalità. 3. Rapporti tra gergo e dialetti. 4. Gergalismi nella lingua. 5. Scrivere in gergo. archivio166.htm
1. I dialetti italiani nel Mondo. 2. Caratteri. 3. I dialetti italiani negli USA. 4. I dialetti italiani in America Latina. 5. Un episodio messicano: la colonia Chipilo. archivio167.htm
(*) in via di stesura. Prima correzione dicembre 2007. Riprendo il lavoro dopo 7 anni dalla pubblicazione delle bozze non corrette. La verità, speravo in un aiuto Fate sempre in tempo. La prossima correzione al termine dell’inserimento del resto degli appunti. Cliccare sul capitolo per la rapida visione.
Buona lettura.
1790* - 1990**.
"Al prumm dal lungon a Carpignin, a truà l'Casér senza an bergnin", "Il primo dell'anno a Carpugnino, a cercar padrone, senza un soldino".
Questa scritta è posta nella piazza della chiesa di Carpugnino il paese d’origine della mia bisnonna “Mamma Gin a pochi chilometri da Brisino”
(*1790 la nascita della mamma di mia bisnonna, **1990 la scomparsa di mia madre)
A mia moglie Rita
per l’infinita pazienza.
Ascoltami, ho una storia affascinante da raccontarti. C’era una volta un idioma per noi una lingua “il Tarùsc”, parlata dai miei vecchi. Molte delle parole che troverai le ho apprese, da mio padre, da mia madre, dalle mie zie Domenica e Santina, dagli anziani del paese, dal Tunin un vecchio saggio amico di mio bisnonno, “che non ho conosciuto”, ma che ne ho sentito parlare per le sue imprese di giovane garibaldino; giorno dopo giorno ascoltando le loro storie, nelle calde giornate estive alla fine degli anni 40 e dal cugino Mario che, oltre conoscere il Tarusc aveva una grande curiosità e conoscenza della lingue europee. Non troverai tutto, ma un piccolo vocabolario con molte particolarità, delle frasi idiomatiche ed una piccola grammatica. Il resto è la storia di Brisino, di ieri e di oggi con l'aggiunta via via i dati raccolti negli ultimi anni. I dati sono stati tratti dagli archivi della Parrocchia, dalla Biblioteca Comunale, dal museo dell’ombrello e dai molti autori che hanno scritto sulle tradizioni e sui mestieri del vergante. Il ricettario delle erbe della nonna, “oltre il confine”, perché oltre al confine, nel girovagare per l’Europa e per il mondo ho apprezzato le vecchie buone cose delle nostre tradizioni. Le ricette della nonna e la ricetta come fare il formaggio di capra. Le ricette di mia madre. La cucina nei giorni di festa. Le ricette di “Mamma Gin” la mia bisnonna, ricettario “rimedji”, per sanare con pochissima spesa tutte sorte d’infirmita Interne ed esterne, invecchiate e passate sino al presente per incurabili, in pratica come si curavano nel ’700 con le erbe, con l’aglio e la cipolla. Intanto che cos'è il “Tarùsc”. Un idioma, dei vecchi dell'alto vergante, forse sarebbe meglio dire, la lingua della sponda occidentale del lago Maggiore che va da Meina a Baveno, passando da Brisino, Gigniese, Massino, fatta rivivere ed arricchita “non solo” dagli ombrellai, in cerca di fortuna per l'Italia e nel mondo; forse solo un modo come riconoscersi, per distinguersi oppure quello che io penso il resto di una lingua/dialetto/vernacolo, scomparsa. Nel 1965 a Buenos Aires al mercato delle cose vecchie di Sant Elmo ho avuto il piacere di incontrare un anziano signore e di ascoltare il nostro idioma e l’ultima volta nel 2006 sempre a Beuonos Aires, il figlio dell’Alfredo, che aveva ereditato dal padre, la passione del Tarùsc e delle buone vecchie cose
del vergante.
NOTA
“ Si sente ripetere che una società non possa esistere senza una memoria di quanto è avvenuto nel passato: la selezione degli elementi di questo da conservare serve a trasmettere da una generazione all'altra una storia «dotata di senso», ed in quanto tale, rileva Yosef Hayim Yerushalmi, sostiene “quel complesso di riti e di valori che costituisce per un popolo il senso della propria identità e del proprio destino”. Diventeranno oggetto di trasmissione solo quei momenti tratti dal passato che vengano sentiti come educativi ed esemplari per la hallakhah di un popolo, così come è vissuta in quel momento; il resto della "storia" cade, si può dire quasi letteralmente, fuori dal sentiero» (hallakhah è parola ebraica che indica il sentiero su cui si cammina, la strada). In tal modo l'esercizio della memoria (come e cosa ricordare) è strettamente connesso a quello dell'oblio, come sottolineava Nietzsche in un brano molto noto: “è del tutto impossibile vivere in generale senza dimenticare [...] La serenità, la buona coscienza, l'allegra attività, la fiducia nell'avvenire, tutto ciò dipende, nell'individuo come nel popolo [...] dal fatto di sapere tanto bene dimenticare al momento giusto, quanto bene ricordare al momento giusto; dipende dal sapere sentire con istinto potente quando sia necessario sentire storicamente e quando non storicamente [...] L'antistorico e lo storico sono ugualmente necessari per la sanità di un individuo, di un popolo o di una civiltà”.
E qualche anno dopo Ernest Renan, nella sua famosa conferenza tenuta alla Sorbona l'11 marzo 1882 su Che cos'è una nazione?, ricordava che «l'oblio, e dirò persino l'errore storico, costituiscono un fattore essenziale nella creazione di una nazione, ed è per questo motivo che il progresso degli studi storici rappresenta un pericolo per le nazionalità”.
Le battaglie del presente.
Ovviamente non si tratta di un'operazione indolore: “La memoria e l'oblio - ha scritto Remo Bodei - non rappresentano [...] terreni neutrali, ma veri e propri campi di battaglia, in cui si decide, si sagoma e si legittima l'identità, specie quella collettiva. Attraverso una serie ininterrotta di lotte, i contendenti si appropriano della loro quota d'eredità simbolica del passato, ne ostracizzano o ne sottolineano alcuni tratti a spese di altri, componendo un chiaroscuro relativamente adeguato alle più sentite esigenze del momento”. Inoltre, se la memoria serve a fondare una comunità dotandola di unità di passato e di comunità di intenti, questa operazione può anche compiersi con un'ossessiva ripetizione di fratture e torti che spesso affondano le radici in un tempo remoto, individuando un nemico presunto, da combattere ed espellere dal corpo sano, e identitariamente omogeneo, della nazione.
Questa lunga introduzione al numero 10/2004 di Novecento, serve a mostrare l'opportunità della scelta di dedicare un numero monografico a Fare memoria, costruire identità: rispetto al dilagare del termine e degli inviti alla memoria, ricorda il direttore Luca Baldissara nell'introduzione, la rivista ha deciso di «contribuire ad illuminare criticamente alcuni snodi concettuali e metodologici del ricorso alla memoria (sia come fonte che come oggetto dell'indagine), e di riflettere sugli usi pubblici e sulle manipolazioni politiche cui è sottoposta nell'arena del dibattito politico-culturale”.
Scelta quanto mai necessaria, quella di restituire complessità e spessore critico al termine, al di fuori di ogni ingenua od entusiastica sua proposizione. La memoria è sì un discorso del passato, ma che interagisce sempre con il presente, con l'attualità nella quale vive il testimone (sia esso un soggetto individuale, una comunità nazionale, una nazione, o anche un insieme di popoli che si tende a legare in un'identità sopranazionale, come nel caso dell'Europa): un'osservazione espressa con grande efficacia da Ascanio Celestini, nella bella intervista rilasciata a Luca Baldissara e Andrea Rapini sui rapporti fra il suo teatro, la storia e la memoria: “A me interessa molto di più il peso che ha oggi la memoria per le persone. A me interessa quello che succede oggi. E' chiaro che chi intervisto mi spiega il presente attraverso il passato, ma è del presente che parla! [...] Il passato sta lì perché altrimenti non riuscirebbe a gestire le immagini che ha oggi nel presente, ma è del presente che parla». E anche Enzo Traverso, nel suo saggio su Storia e memoria. Gli usi politici del passato (che insieme a quelli di Fabio Dei su Antropologia e memoria e di Emanuela Fronza su Diritto e memoria compone la prima parte, di metodo, del numero), ricorda che «la memoria, sia individuale che collettiva, è una visione del passato sempre mediata dal presente”.
Del resto già da tempo gli storici hanno iniziato a parlare di un «eccesso di memoria» (Charles Maier), di un «boom della memoria” (Jay Winter), di un'«era del testimone» (Annette Wieviorka); alcuni, come Pierre Nora, curatore della monumentale opera su Les lieux de mémoire, hanno strettamente contrapposto la memoria e la storia, in quanto la prima «è un assoluto», mentre “la storia conosce soltanto il relativo”.
Una contrapposizione questa che peraltro non condivide Enzo Traverso: egli è ben consapevole che «la memoria singolarizza la storia. La sua percezione del passato è irriducibilmente singolare. Là dove lo storico vede una tappa di un processo, un particolare di un quadro complesso e mobile, il testimone può cogliere un avvenimento cruciale, lo stravolgimento di una vita». E tuttavia Traverso non solo ritiene che si sottovalutino i rischi di manipolazione e «sacralizzazione» che appartengono anche alla scrittura della storia, ma recupera l'utilità di un serio confronto degli storici con la memoria - individuale o collettiva che sia - purché questa venga ricondotta al suo «contesto più generale[...], inscrive [ndo] questa singolarità dell'esperienza vissuta in un contesto storico globale, tentando di illuminarne le cause, le condizioni, le strutture, la dinamica d'insieme».
La memoria infatti ha una sua specifica «temporalità», che lo storico può utilmente ricostruire andando a chiedersi per quali motivi, in quali circostanze, sotto quali influssi determinate memorie si impongano come egemoni ed altre vengano invece emarginate, se non definitivamente cancellate. Si riprenda ad esempio la stessa memoria della Shoah, che si è ormai imposta come elemento centrale di riflessioni sul Novecento (tanto da suscitare perentorie affermazioni sull'unicità di quell'evento che per lo storico o sono scontate, in quanto ogni evento è unico e particolare, o sono devianti, in quanto bloccano i meccanismi di comparazione così importanti per la narrazioni storica in quanto consentono di smontare gli avvenimenti, cercare connessioni non immediatamente percettibili e scontate, ricostruire genealogie): ebbene, fino agli anni Sessanta la consapevolezza di quell'evento era ben debole nella coscienza mondiale, tant'è che un lavoro fondamentale come quello di Hilberg su La distruzione degli ebrei d'Europa, uscito nella sua prima versione nel 1960, solo con gli anni Ottanta diventò opera di riferimento (in Italia è stato pubblicato, da Einaudi, solo nel 1995).
Storicizzare la memoria apre perciò importanti campi d'indagini per lo storico, certamente a patto che questo eviti di diventare “un semplice avvocato della memoria” e di perdere di vista il contesto generale, ma dando comunque per scontato che, “ a meno di riproporre una visione obsoleta (e illusoria) della storia come scienza positiva”, "assiologicamente neutra", si è ben costretti a riconoscere che tutto il lavoro storico veicola anche, implicitamente, un giudizio sul passato». Verso la stessa conclusione, in una singolare coincidenza d'analisi e di sensibilità, si muove anche Fabio Dei per quanto riguarda gli antropologi: al termine di un denso saggio, egli rileva che “ partecipare alle pratiche di costruzione della memoria pubblica e del patrimonio culturale, restando consapevoli dei complessi meccanismi che li costituiscono retoricamente e politicamente nel presente, è il difficile compito che accomuna oggi, a me pare, storici e antropologi”.
Traverso conclude il suo saggio ricordando che “ l'intrecciarsi della storia, della memoria e della giustizia è al centro della vita collettiva”, e che “ al punto di intersezione tra storia e memoria, c'è la politica “. Ma questa osservazione, che condivido, complica ulteriormente il quadro, perché la politica è una grande manipolatrice della memoria, la utilizza per raggiungere i propri fini, definisce i criteri di selezione tra le varie memorie che si confrontano in uno spazio ed in un tempo definito, stabilisce, a volte anche con leggi, l'obbligo a ricordare, incoraggia una memoria del passato che rafforzi le identità necessarie a sostenere i progetti del presente.
Come ricorda Emanuela Fronza nel suo saggio su Diritto e memoria. Un dialogo difficile, «tra le modalità di intervento giuridico che generano un'intersezione con la memoria, in particolare dei fatti che hanno caratterizzato la seconda guerra mondiale, possono individuarsi due tipologie principali: da un lato, l'adozione di legislazioni sul piano nazionale che istituiscono giornate per invitare le popolazioni a ricordare; dall'altro, delle normative adottate sul piano sopranazionale e nazionale, che puniscono la negazione, la minimizzazione o la giustificazione della Shoah». Sulla seconda operazioni l'autrice solleva giustamente seri dubbi, in quanto con essa si promuove «a ufficiale una e un'unica di quelle infinite interpretazioni» sempre possibili sui fatti storici.
Costruzioni identitarie.
Ma anche la scelta di un invito dall'alto alla memoria, a mio avviso, non è esente da rischi: se nessuno contesta, almeno apertamente, la scelta della Shoah come elemento da commemorare il 27 gennaio (e si tratterebbe comunque di capire quali specifiche conoscenze e interpretazioni della Shoah inducono le innumerevoli iniziative intraprese da enti pubblici e scuole in occasione di quella scadenza), una volta intrapresa la strada di stabilire per legge cosa è opportuno ricordare si aprono comunque delicati problemi, ad esempio quando si decide di estendere quell'invito ad avvenimenti più controversi o legati a specifiche situazioni di storia nazionale (si pensi ad esempio alla legge italiana 30 marzo 2004, n. 92, che istituisce un "giorno del ricordo" in memoria delle vittime delle foibe, dell'esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale”). In ogni caso i rischi di manipolazione istituzionale della storia - e di ritualizzazione e svuotamento di significato della memoria - sono elevatissimi, e dovrebbero spingere a giudicare con grande prudenza l'istituzione di giornate della memoria, quale che sia il contenuto del ricordo che si vuole imporre per legge.
La costruzione identitaria è del resto sempre un'operazione complessa e necessariamente manipolatoria: lo dimostrano i saggi sull'Europa e sull'utilizzazione del discorso storico nel definire lo spazio europeo di Luca Scuccimarra, Stefano Petrungaro e Patrick Hyder Patterson o, su un altro versante, quello di Raya Cohen sul discorso pubblico israeliano, nel quale si sottolinea la cancellazione del passato europeo dalla storia ebraica insegnata in Israele, a tutto vantaggio del discorso sionistico e dell'esperienza della Shoah, lo evidenzia infine l'intervento fortemente polemico di Hans - Ulrich Wehler contro l'adesione della Turchia all'Europa: tra le varie argomentazioni che l'insigne storico tedesco porta a favore della sua tesi, quelle di carattere economico, sociale, politico si mescolano ad una forte valutazione del differente passato storico, per cui “ per circa 450 anni il musulmano Impero ottomano ha quasi ininterrottamente condotto guerre contro l'Europa cristiana portando addirittura il suo esercito alle porte di Vienna»: un esempio di come la memoria di un passato remoto possa orientare gli individui anche davanti a scelte strategiche relative all'oggi. “...
Stesura incompleta
Ultimo aggiornamento dicembre 2010
1. BRISINO ED IL SUO TARUSCH. COSA E' RIMASTO DEL NOSTRO MONDO CONTADINO E DEI VECCHI MESTIERI
I Capitolo.
Brisino ed Il suo Tarùsch. Cosa è rimasto del nostro mondo contadino.
Tarùsc, questo termine ormai sta per una lingua scomparsa (idioma, vernacolo, dialetto) tenterò di farlo rivivere attraverso la pubblicazione di tutte le parole che mi ricordo, ed attingendo dalle pubblicazioni che ho consultato (troverete un’ampia bibliografia alla fine del lavoro): opportuno, quindi, cercare di chiarirne l'origine ed il significato. La lingua, l'idioma si regionalizza con i primi pionieri gli "ombrellai", i "lùsciat" che avevano adottato, per scambiarsi tra loro notizie ed informazioni, un linguaggio del tutto particolare delle genti dell'alto vergante, diventa dalla fine del 700’ e fino all'inizio del 900' quel che si definisce un gergo (parlato a Brisino da poche persone, fino la fine degli anni ’80). Il Tarùsc: “Gergo è parola di probabile origine provenzale, con la quale si designano genericamente le lingue speciali parlate da specifici gruppi sociali, che non intendono farsi comprendere da altri; vincolo ideale per gruppi corporativi artigiani, tecnici, ecc. ”. L'intento principale era quello di sottrarsi al controllo altrui, stabilendo un tipo di comunicazione decifrabile soltanto da chi ne possegga il codice, non avere una sua unità precisa, ma confonde ed amalgama parlate di gruppi diversi tra loro». Il Ferrero rileva “l'importante capitolo dei gerghi degli artigiani, di particolare importanza a cavallo tra il 700 e nel 800 e nei primi decenni del '900, e poi in via d’estinzione con l'estinzione stessa di tanti mestieri (ombrellai, ecc.) “. Non sono del tutto convinto di quello che dice il Ferrero, anche perché queste parole e le frasi idiomatiche le ho ascoltate dai vecchi del mio paese e molti di loro non hanno mai avuto nessun rapporto con il lavoro degli ombrellai, sono invece quasi certo che questa categoria ha assunto la parlata dell'alto vergante, come lingua di distinzione della propria corporazione, tanto che questo gergo è parlato ancora dai pochi vecchi rimasti. La lingua scompare, e questo è vero, dal momento in cui scompare una generazione poco scolarizzata, dove s’incomincia a studiare in maniera sistematica la lingua italiana dopo l'Unità d'Italia. Rif. La nuova Italia. Dizionario dei Comuni del regno Ed. Vallardi 1899. Alcune parole si possono ritrovare nel Dizionario Piemontese - Italiano del “Michela Ponza”, anno 1847, quarta edizione Carlo Schiepatti - Torino. In questa definizione sono precisate le ragioni che furono all'origine del nostro tarùsc, la sua funzione ed anche il perché del suo declino; e non mi sembra inutile rileva¬re l'esplicito riferimento, tra gli altri, proprio agli ombrellai ed alla generazione che sono trapassate. E' questa una ragione che mi permette di concorda¬re in parte, con il Prini che considerò “un esemplare raro di lingua furbesca e chissà un po' da furfanti di buon conio”, anche se “meriterebbe” di esser recuperato, - il primo - vedeva l'influsso delle occupazioni succedute nei secoli scorsi. Sul suo territorio passava la vecchia strada del Sempione. Il lago era una via di comunicazione tra la Svizzera, la Lombardia e il Piemonte, dove per la popolazione locale era l'unica salvezza per mantenere una propria identità e libertà di fronte ai continui soprusi, il popolo serviva un tempo come d’altronde oggi, solo come carne da macello per le varie guerre. Nel museo dell’Isola Bella è conservata una piroga di 7000 anni fa, sta a significare che già allora le popolazioni si muovevano, non erano stanziali, tanto più che il legno della piroga sembra di origine africana. Non è del tutto vero per chi sostiene che le origini siano celtiche, con riferimento alla piroga si potrebbe sostenere il contrario che gli antichi abitanti potrebbero discendere da un popolo mediterreaneo. E' che i ritrovamenti, altro non sono che, i resti di navigatori mediterranei del nord africa. Una lingua che purtroppo, per la scomparsa delle generazioni che ci hanno preceduto, il Tarùsc è divenuto un ricordo lontano, una sorta di "cimelio di famiglia", sino ad esser del tutto dimenticato. Non ha lasciato che scarse e poche tracce, anche in quei meritori tentativi di tramandare, un ricordo delle vicende e delle opere di questi figli del Vergante. Al Tarùsc si accenna di sfuggita soltanto in qualche pubblicazione più vicina al mondo corporativo dei mestieri ed in particolar modo degli ombrellai. Un ricordo più preciso s’incontra nel Museo di Gignese: infatti, in un dépliant illustrativo non datato a cura della Piccinino è riportato un piccolo Dizionarietto Tarùsc Italiano. Nella recente Guida (del 1989) ve n’è soltanto un cenno, senza citazioni di parole o motti. Non si trova nulla o quasi nelle opere, anche recenti, peraltro meritorie, che si sono occupate della storia del Vergante. Unica eccezione, e pubblicazioni di padre Manni, nel 1968 e nel 1973 diede alle stampe due volumetti: nel primo si occupò del suo paese e degli abitanti (Massino e i suoi lusciát) e dopo aver pazientemente ricostruite le genealogie di vari gruppi familiari, si soffermò diffusamente sul Tarùsc. A questo dedicò la sua seconda opera Il Tarùsc, la parlata degli ombrellai. Dizionarietto etimologico); un agile manuale, davvero prezioso, raccoglie tutti o quasi i vocaboli gergali, le frasi più tipiche e caratteristiche e la loro costruzione grammaticale, ma tenta anche di risalire all’etimologia dei vari vocaboli, cercando di individuare gli influssi d’altri dialetti o lingue che avrebbero potuto contribuire a modificare una preesistente parola dialettale locale o a crearne una nuova. Purtroppo questi due libri sono oggi molto difficilmente reperibili. Consiglio la lettura. Partendo da queste due pubblicazioni cercherò di ricostruire un pezzo della storia dei nostri antenati. In definitiva, si ritiene che l'origine di queste parole gergali vada ricercata nei dialetti locali (un misto di lombardo alto piemontese, anche con influssi liguri) ed aggiungo anche l’influsso ladino ed alcuni vocaboli forse siano importati probabilmente dai primi ombrellai, venuti a contatto con gli abitanti di regioni o zone vicine, che spesso parlavano dialetti simili al loro. A differenza di molti autorevoli autori e ricercatori penso che, con il miglioramento delle comunicazioni altri vocaboli siano aggiunti, adattandoli nella pronuncia, oppure modificandone talora il significato abituale, fors'anche creandone dei nuovi per assonanza od imitazione. Non va dimenticato che, sino ad oltre la metà del secolo scorso, gran parte della popolazione usava preferibilmente, se non soltanto, il dialetto e, quindi, non può sorprendere che l'influsso della lingua italiana sia stato minimo, talora nullo. Cosa che invece, si verificò per le lingue straniere, in quel tempo ancora usate dal popolo con deformazioni dialettali. Da non trascurare i rapporti ed i contatti con elementi provenienti dalla Savoia e dai Cantoni Svizzeri (lingua ladina)che, avvenivano per la comune frequentazione di fiere e mercati. Sono anche da ricordare le parlate walzer (ancora oggi usate) d’alcune vicine vallate alpine, come Alagna, Macugnaga, Formazza. Solo con il traforo del Sempione, l’attuale provincia di Verbania e parte dell'alto Novarese trovava uno sbocco internazionale che si aggiungeva alla regionalizazione in corso. Per tutti i secoli passati non esistevano le scuole e l'istruzione, per pochi e molto spesso legata alla chiesa. Mi è sembrato doveroso e necessario dedicare una riflessione a questa parlata gergale, ríproponendone i vocaboli e, talora, cercando di risalire alle etimologie, avvalendomi (oltre che, naturalmente, delle opere del Manni, della Piccinino e dell'Ambrosini del Prini e dell'Aghina) anche della recente pubblicazione del Cortelazzo e del Marcato, nella quale, purtroppo, si possono trovare soltanto richiami indiretti da termini dialettali delle vicine province, più volte ricordate: Lúsciàt e Tarùsc. Il primo ha un suo preciso riferimento alla parola che, nel dialetto locale, indica la pioggia ed anche l'acqua: Lúscià, talora si trova scritta slùscià, con i relativi verbi lúscíà o slùscià per piovere (ed anche, per traslato, orinare). In seguito il termine passò ad indicare l'arnese che ripara dalla pioggia, l'ombrello o parapioggia, e, di conseguenza ne derivò anche lúsciàt, cioè l'ombrellaio. Il Ferrero ricorda la parola lúsa con il significato appunto d’acqua, propria dei gerghi artigianali delle vallate alpine. E' necessario, dapprima, cercare di interpretare la parola Tarùsc. Particolare ed intricata è l'etimologia di Tarùsc: nell’originario dialetto con questo termine, s’indicava «quel residuo che si raccoglieva assieme al terreno, là dove era stato depositato un cumulo di letame o di fogliame». Tarùsc sta per “Risigusc” che significa la segatura del legno, del lavoro del falegname, smusc per angolo, spigolo ecc. ), ecco perché è troppo semplice la teoria di un unico mestiere, mi ricordo che nella falegnameria che ho avuto l’opportunità di lavorare nelle vacanze del1952, molti degli operai parlavano sul lavoro con quest’idioma. Come si poteva giustificare il suo uso per indicare una particolare parlata gergale? Un ricercatore cercò di individuarne la derivazione da una lingua straniera, dal tedesco, e in altre parole da Tarnung = mascheramento, o da tarnen = mascherare, camuffarsi. Se ne potrebbe, quindi, dedurre che i primi lúsciàt trovarono foneticamente collegabili queste parole germaniche (tra l'altro anche mal pronunziate) con un vocabolo familiare, attribuendogli un significato ben diverso, ma consono alle loro esigenze. Una considerazione nei paesi dell'alto vergante ci sono stati vari insediamenti della popolazione germanica, inoltre come molti nostri connazionali, siamo un popolo d’emigrazione, è probabile che al rientro ogni emigrato abbia riportato un pò del modo dove ha vissuto. Troviamo dei Brisinesi o dell'alto vergante oltre che in molte città Italiane, Torino, Genova, Milano, Roma, Napoli e province limitrofe. Incontriamo dei discendenti che, più delle volte non parlano italiano ma il dialetto, anche in Francia, Svizzera, Germania, Brasile nel MatoGrosso, Argentina, Venezuela, Stati Uniti, Australia e Africa meridionale. A Buenos Aires nel 1965 al mercato dell’antiquariato di Sant’Elmo ho trattato l’acquisto di libri, (la storia dei comuni italiani ed. 1880), con un signore molto anziano che parlava il Tarùsc. Era partito per l’Argentina, dal lago, con i genitori nel 1890. Dal canto suo il Ferrero cita il termine Taròn che indicava “un gergo parlato da mestieranti girovaghi delle vallate alpine” e che, in alcune località, diventava Tarùc ed anche Tarùsc senza peraltro addentrarsi in questioni etimologiche. Oggi la parola “taròn” impropriamente è usata in senso dispregiativo. Da citare, soltanto per curiosità, si vuole far risalire ai Taurisci, popolazione che precedette i Leponzi in questo territorio; il che naturalmente non regge nemmeno per ipotesi. Per molti vocaboli troviamo derivazioni da lingue straniere.
Da molti anni, infatti, la moda del folclore, del mondo contadino, dei mestieri, della genuinità dei cibi o stile di vita delle comunità minori emarginate; investe i consumi alimentari, le fogge dell’abbigliamento, la produzione di mobili, l’industria del tempo libero. Nel rivedere questa ricerca, mi sono trovato improvvisamente impegnato ad affrontare, in termini nuovi, le ragioni stesse del lavoro per renderne più esplicite le motivazioni e gli scopi e per distinguere la posizione dai facili entusiasti. Una ricerca necessaria iniziata nell’estate del 1948, non già per una boriosa difesa della propria “originalità” di ricerca, ma proseguire serenamente nella curiosità, a beneficio di chi continuerà a guardare con interesse al “mondo popolare”. L’improvviso accendersi dell’interesse per il folclore nel nostro Paese segue analoghi entusiasmi che, già da tempo, si erano manifestati in altre società industriali avanzate: si può dire, anzi, che il fenomeno in sé, è, per certi versi, il sintomo di un benessere economico che inizia a diffondersi in tutti gli strati sociali. Nasce il desiderio di superare gli aspetti più consumistici di una società industrialmente avanzata che, induce una massa sempre più larga d’abitanti dei centri urbani a guardare, con nuovo interesse, le piccole comunità o i luoghi ancora “incontaminati” della vita popolare cittadina come, per esempio, il mercato o l’osteria. L’esplorazione dei luoghi e condizioni di vita delle classi subalterne non è nuova. Si può dire, anzi, che mai ha cessato, già da tempi lontani, di stimolare l’attenzione e l’interesse di una ristretta élite intellettuale, sollecitata dal desiderio di scoprire fatti, situazioni e valori estranei all’alta cultura. Gli appunti di viaggio di scrittori famosi sono ricchi d’annotazioni e spunti sulla vita popolare urbana e agro-pastorale, dalla descrizione della festa dei friggitori di frittelle vista da Goethe a Napoli nel giorno di s. Giuseppe alle impressioni di Lawrence durante un soggiorno in Sardegna. Accanto alle spigolature curiose, vi è una vasta letteratura antropologica che dopo le lontane e solitarie, ma straordinariamente precorritrici, meditazioni di Montaigne, trova solidi presupposti negli illuministi francesi, in Spencer, in Taylor, in Morgan, in Marx e, recentemente, in Gramsci e De Martino. Nel solco tracciato da questi “maestri del pensiero” si sono sviluppate le indagini di folcloristi e di etnografi. Certo non sarà per me facile questo lavoro, non voglio paragonare a nessuno degli illustri nomi citati, continuerò raccogliere i dati così come iniziato dal lontano 1948 per poi assemblarli e far parlare al testo un'unica idioma “Il Tarùsc”. Una “guida” al Tarùsc, potrebbe limitarsi all’elenco e alla descrizione di lavoro, mestieri, feste, riti, cerimonie, canti, balli, di sistemi d’abbigliamento che, sappiamo appagare la curiosità del nuovo e del diverso. Nasce il bisogno di consumare spettacoli e di evadere dai ritmi della vita cittadina. Certamente in questo testo non mancheranno le informazioni sui momenti più originali e sugli aspetti meno noti della vita tradizionale dei pastori, dei contadini, dei pescatori, degli ombrellai e degli artigiani dell’alto vergante ed in particolare di Brisino. Diventa interessante assistere alle varie manifestazioni, ancora carichi di suggestione, nonostante gli interventi delle Pro Loco e d’altre organizzazioni che disciplinano i protagonisti per incrementare l’affluenza turistica. Sarà interessante notare che, in questi casi, gli stessi protagonisti entrano nel ruolo di portatori di folclore e si rappresentano come autentici esponenti della cultura locale per appagare la curiosità dei forestieri. Il folclorista mette in conto senza scandalo questo distacco dalla cerimonialità tradizionale perché sa che, in un Carnevale, in una processione, in un rito di maggio o di Capodanno, vi è vita segreta, più interna, entro la quale indagare per cogliere le ragioni vere e i tratti culturali decisivi che inducono un gruppo sociale, rispettando ricorrenze fisse, ad abbigliarsi in modo eccentrico e a dar luogo a comportamenti festosi che, di là dai mutamenti, degli aggiornamenti e delle regie, perpetuano rituali antichi con significati che talvolta restano oscuri. Proprio il Carnevale, con la sua esplosione di spettacolarità ubbidisce a bisogni insopprimibili. Un “mondo alla rovescia” che occorre collocare nei meccanismi compensativi elaborati dalla comunità. Un rovesciamento dei dati di fatto che nella vita quotidiana agiscono senza alternative. Del resto il rovesciamento è già implicito nella gratuità delle cerimonie e dei comportamenti, nel protagonismo esasperato, nel travestimento sontuoso: tutto l’opposto, insomma, di quanto le condizioni di vita e di lavoro impongono nel corso dell’anno. I rischi più gravi si corrono se l’invito dell’etnografo ad avviare un confronto segreto col “mondo popolare” si traduce in safari folcloristici dove non si sa più se i personaggi pittoreschi da osservare sono i contadini e i pastori o le frotte dei turisti. Il giovane che si pone il problema, di conoscere meglio il nostro Paese dovrebbe recarsi presso comunità minori, venire a contatto con i coetanei, prendere coscienza di condizioni di vita e di lavoro che in molte comunità alpine, appenniniche, meridionali e insulari si ri-propongono secondo modalità “arcaiche”. Scoprirà allora che, in molti casi, la tecnologia più tradizionale (basata sull’energia delle braccia, o degli animali, o del vento o dell’acqua) resta immutata perché è l’unica praticabile; e che antiche modalità di coltivazione e d’allevamento degli animali ubbidiscono alla primaria necessità di nutrirsi e di costruire un riparo. Lo stretto rapporto tra tecnologia, in pratica attrezzi di lavoro o macchine elementari, e risorse ambientali è uno dei pochi tratti culturali che unificano contadini, pastori, pescatori e artigiani di regioni diverse; mentre l’analisi dei prodotti culturali, non materiali, come il canto, la danza, l’espressione linguistica, la vita cerimoniale, svela normalmente forti differenziazioni. Le ricerche fin qui condotte spiegano, solo in parte, i dati accumulati in anni di rilevazioni. Parliamo di responsabilità politiche nuove che, si sono poste agli studiosi d’etnografia e folclore, dall'ultimo dopo guerra, intende riferirsi all’atteggiamento da assumere di fronte a quelle condizioni d’arretratezza, e talvolta di miseria, che fa da supporto ai fenomeni oggetto di studio, tramandati con un costo sociale molto elevato; se, insomma, si propugna una società più moderna, più giusta è difficile non augurarsi che le comunità minori superino quei ritardi soprattutto economici, di fatto, le emarginano nei processi di trasformazione in atto. Le cose non sono così semplici. In primo luogo, chi cerca, che è uomo di passaggio, anche se prolunga per anni il suo soggiorno di studio, non può correttamente sollecitare processi di cambiamento se poi non è in grado di parteciparvi attivamente; in secondo luogo, non tutti i tratti culturali e le comunità minori, sono da considerare residua sopravvivenza di condizioni di vita e di lavoro da rimuovere. Beni alimentari e manufatti artigianali s’inseriscono felicemente nel mercato locale e in quello urbano e garantiscono, a diverse piccole comunità, un reddito stabile e sicuro; e non è detto che, per inserirsi efficacemente nei ritmi di una società moderna, si debbano necessariamente rimuovere feste, canti, balli, tradizioni, luoghi di lavoro, abitazioni. Una volta superata il pregiudizio che relegava la cultura popolare in una sfera naturalistica, si parlò a lungo, per le società primitive, di popoli di natura, si è acquisita coscienza della storicità dei fatti etnografici. Non basta più osservare che certi riti “si perdono nella notte dei tempi”, che l’abbigliamento tradizionale, lo stile di costruzione delle case o un repertorio di canti esistono da tempi immemorabili.
C i troviamo un compito d’enorme difficoltà che ha prodotto risultati non sempre soddisfacenti ma che è necessario per superare stucchevoli genericità e per coinvolgere utilmente, da protagonisti attivi, quegli uomini che i folcloristi ottocenteschi chiamavano “portatori” e che oggi non possiamo più limitarci a considerare soltanto “informatori”. L’aiuto concreto che il ricercatore può dare sta nella capacità di compiere il suo lavoro apertamente, confrontando i risultati e i problemi con quegli stessi soggetti che hanno offerto collaborazione e aiuto. I fatti che l’etnografia offre alla nostra attenzione sono stratificazioni d’avvenimenti passati, assunti in forma frammentaria, secondo i bisogni e le relative risposte che una comunità, nel suo insieme, elabora. Acquisita la consapevolezza della “storicità” dei tratti culturali si fa più acuto il problema della loro rimozione. Modi drammaticamente anacronistici di affrontare crisi esistenziali scatenate dalla malattia e dalla morte, si pensi al lamento funebre, o a pratiche terapeutiche crudeli, inefficaci o del tutto superstiziose, sono in estinzione e, quando vengono rilevate come oggetto di studio, difficilmente un etnografo, desideroso di appartenere degnamente a una comunità di ricercatori che si qualificano “scienziati dell’uomo”, si sottrae alla speranza che tali fenomeni non debbano più potersi indagare “dal vivo” ma soltanto attraverso il resoconto di vecchie testimonianze. Accanto ai tratti culturali da rimuovere e superare ve ne sono altri che vorremmo largamente diffusi e che appartengono a quella condizione ideale di un’umanità nuova, “redenta” dagli effetti perversi del consumisrno; tratti culturali che, in molti casi, proprio i giovani delle città, tentano di costruire inventando modi di vita e di svago nuovi e alternativi. Pensiamo alle musiche, ai balli, alle feste, alle particolari modalità di aggregazione che, in nome del progresso, dell’aspirazione ad assumere moduli di vita urbana, vengono dalle piccole comunità in trasformazione eliminati per sempre. La bettola diventa un bar chiassoso con musica registrata e giochi elettronici mentre i luoghi destinati al ballo restano deserti si popolano le discoteche. Nel frattempo i giovani delle città si affannano a cercare vecchie osterie per bere il vino e giocare a carte o si riversano nelle piazze per suonare e ballare. In certi casi pare di assistere alla gara di due mondi che rischiano, in nome della modernità, di inseguirsi senza mai raggiungersi proprio, quando le differenze città-campagna sembra annullarsi. Grazie ad amministrazioni comunali dinamiche e attente, grazie alle sollecitazioni di studiosi locali o alla sensibilità nuova diffusasi in larghi strati della popolazione, capiterà di imbattersi in piccoli musei etnografici, es. il museo di Gignese, i mulini riattivati in case, piazze, cascine restaurate e “restituite” alla comunità. A volte la motivazione è l’orgoglio municipalistico di rendere vivibile, per se stessi il proprio paese; in altri casi, con la riesumazione, talvolta improbabile, di antiche feste, di canti di balli andati in disuso, si creano attrazioni turistiche da associare alla salubrità alla bellezza naturale dei luoghi.
Inserire foto la Patafjeta.
Come si vede, anche una sommaria valutazione di ciò che un viaggiatore non distratto può osservare aggirandosi nelle comunità minori, sfugge a rilevanti e definitive classificazioni: e, infatti, lo studio dell’etnografia si basa più sulle distinzioni, che sulle categoriche affermazioni. Non a caso i contributi più seri si avvalgono degli strumenti concettuali più ricercati che la cultura produce. Quel che appare certo è che la cultura popolare è essenzialmente orale. L’oralità non è soltanto da intendersi come un dispositivo per tramandare canti e testi verbali formalizzati, in versi o in prosa, ma anche come trasmissione di tecniche per costruire gli attrezzi di lavoro o una casa, per allevare gli animali e coltivare i campi, per riconoscere le piante e le erbe adatte all’alimentazione e alla cura della salute. Oralmente sono tramandati anche i nomi dei luoghi, il racconto talvolta realistico e talvolta leggendario, di fatti ed esperienze vissute nel passato. Apparirà evidente la presenza, nella vita tradizionale, di residui consistenti delle esperienze storiche e culturali lasciate in eredità dalle classi dominanti. Evidente che tali eredità erano più consistenti in un contadino piemontese o toscano piuttosto che in un bracciante alpino, lucano o in un pastore sardo. Nel primo caso, tra “mondo popolare” ed élite intellettuale, vi erano contatti e persino scambi, negli altri casi, al contrario, probabilmente, erano più sporadici o quasi inesistenti. La montagna ha da sempre diviso la società. Nella sedimentazione d’arcaicità e di singole esperienze culturali del passato si fa notare il percorso storico di una comunità e la costruzione di una visione complessiva del mondo, accanto alla capacità di interrogarlo e di darsi risposte. Si sposta l’attenzione, dalla comunità nel suo insieme, al singolo caso umano che, in modo esemplare, può sottoporre a verifica il punto di vista del ricercatore, il problema si pone con contorni più definiti. Un uomo è un erede e un produttore di cultura che “legge” la realtà, vi si adatta e, quando può, la trasforma. A questi fini eredita ed elabora tecniche adatte a soddisfare i bisogni materiali. Produce o rielabora comportamenti festosi per appagare le esigenze di socializzazione, assimila o reinventa spiegazioni per capire secondo criteri naturali, soprannaturali, magici e scientifici gli eventi dell’ambiente fisico e umano entro il quale agisce. Nel riconoscergli l’integrità d’uomo pensante possiamo notare il più spregiudicato accostamento di tratti residuali dell’élite sociale accanto ad altri, del tutto originali, elaborati autonomamente entro il gruppo di appartenenza. La capacità di individuare questi due diversi aspetti del mondo popolare si potrebbe forse proporre come spunto appassionante per il viaggiare con questo testo nel passato della comunità del vergante, in particolare nella società Brisinese e nell’idioma scomparso del “Tarùsc”.
Era la lingua di casa mia, dei miei antenati(*) che, ho sempre cercato di non dimenticare insieme a tante altre cose dei miei genitori. Al rientro dal collegio, si sforzavano di usare l’italiano, io scivolavo con piacere, per aiutarli, nel dialetto nel Tarùsc. I dialetti entrano anche a raccontare una vicenda sociale: l’emigrazione, ma non quella remota, quella più nuova, Oggi, quando la scelta non è tra fame nera e partire, ma nell’emigrare c’entra la voglia di avere «più soldi - e c’entra anche il bisogno più evoluto di guardare il mondo. Dietro il tema dell’emigrazione e del ritorno, fa intravedere la dialettica ormai non più lineare fra Tradizione e Progresso: il progresso oggi dove si annida. Dove è la vera qualità della vita, in città o nei paesi? Quello che si può già pensare, è che l’italiano d’oggi va riducendosi a gran velocità alle duemila, forse duecento parole usate in televisione. Più quel po’ di inglese d’uso citato perfino dall’altero Devoto-Oli che ingloba nella sua ultima edizione. I dialetti sono pertanto dei forzieri: pronti, lì, per ridare alla lingua di chi narra originalità, sapori forti e regalare parole per esprimere sentimenti altrimenti fuori uso.
(*) L’atto notarile di divisione del 1750, il mestiere del mio trisavolo Cesare Battista, era l’ombrellaio e della mia trisavola MariaTeresa.
Inserire foto Gioco della Morra.
Stesura incompleta
1a correzione dicembre 2010
Brisino ed Il suo Tarùsch. Cosa è rimasto del nostro mondo contadino.
Tarùsc, questo termine ormai sta per una lingua scomparsa (idioma, vernacolo, dialetto) tenterò di farlo rivivere attraverso la pubblicazione di tutte le parole che mi ricordo, ed attingendo dalle pubblicazioni che ho consultato (troverete un’ampia bibliografia alla fine del lavoro): opportuno, quindi, cercare di chiarirne l'origine ed il significato. La lingua, l'idioma si regionalizza con i primi pionieri gli "ombrellai", i "lùsciat" che avevano adottato, per scambiarsi tra loro notizie ed informazioni, un linguaggio del tutto particolare delle genti dell'alto vergante, diventa dalla fine del 700’ e fino all'inizio del 900' quel che si definisce un gergo (parlato a Brisino da poche persone, fino la fine degli anni ’80). Il Tarùsc: “Gergo è parola di probabile origine provenzale, con la quale si designano genericamente le lingue speciali parlate da specifici gruppi sociali, che non intendono farsi comprendere da altri; vincolo ideale per gruppi corporativi artigiani, tecnici, ecc. ”. L'intento principale era quello di sottrarsi al controllo altrui, stabilendo un tipo di comunicazione decifrabile soltanto da chi ne possegga il codice, non avere una sua unità precisa, ma confonde ed amalgama parlate di gruppi diversi tra loro». Il Ferrero rileva “l'importante capitolo dei gerghi degli artigiani, di particolare importanza a cavallo tra il 700 e nel 800 e nei primi decenni del '900, e poi in via d’estinzione con l'estinzione stessa di tanti mestieri (ombrellai, ecc.) “. Non sono del tutto convinto di quello che dice il Ferrero, anche perché queste parole e le frasi idiomatiche le ho ascoltate dai vecchi del mio paese e molti di loro non hanno mai avuto nessun rapporto con il lavoro degli ombrellai, sono invece quasi certo che questa categoria ha assunto la parlata dell'alto vergante, come lingua di distinzione della propria corporazione, tanto che questo gergo è parlato ancora dai pochi vecchi rimasti. La lingua scompare, e questo è vero, dal momento in cui scompare una generazione poco scolarizzata, dove s’incomincia a studiare in maniera sistematica la lingua italiana dopo l'Unità d'Italia. Rif. La nuova Italia. Dizionario dei Comuni del regno Ed. Vallardi 1899. Alcune parole si possono ritrovare nel Dizionario Piemontese - Italiano del “Michela Ponza”, anno 1847, quarta edizione Carlo Schiepatti - Torino. In questa definizione sono precisate le ragioni che furono all'origine del nostro tarùsc, la sua funzione ed anche il perché del suo declino; e non mi sembra inutile rileva¬re l'esplicito riferimento, tra gli altri, proprio agli ombrellai ed alla generazione che sono trapassate. E' questa una ragione che mi permette di concorda¬re in parte, con il Prini che considerò “un esemplare raro di lingua furbesca e chissà un po' da furfanti di buon conio”, anche se “meriterebbe” di esser recuperato, - il primo - vedeva l'influsso delle occupazioni succedute nei secoli scorsi. Sul suo territorio passava la vecchia strada del Sempione. Il lago era una via di comunicazione tra la Svizzera, la Lombardia e il Piemonte, dove per la popolazione locale era l'unica salvezza per mantenere una propria identità e libertà di fronte ai continui soprusi, il popolo serviva un tempo come d’altronde oggi, solo come carne da macello per le varie guerre. Nel museo dell’Isola Bella è conservata una piroga di 7000 anni fa, sta a significare che già allora le popolazioni si muovevano, non erano stanziali, tanto più che il legno della piroga sembra di origine africana. Non è del tutto vero per chi sostiene che le origini siano celtiche, con riferimento alla piroga si potrebbe sostenere il contrario che gli antichi abitanti potrebbero discendere da un popolo mediterreaneo. E' che i ritrovamenti, altro non sono che, i resti di navigatori mediterranei del nord africa. Una lingua che purtroppo, per la scomparsa delle generazioni che ci hanno preceduto, il Tarùsc è divenuto un ricordo lontano, una sorta di "cimelio di famiglia", sino ad esser del tutto dimenticato. Non ha lasciato che scarse e poche tracce, anche in quei meritori tentativi di tramandare, un ricordo delle vicende e delle opere di questi figli del Vergante. Al Tarùsc si accenna di sfuggita soltanto in qualche pubblicazione più vicina al mondo corporativo dei mestieri ed in particolar modo degli ombrellai. Un ricordo più preciso s’incontra nel Museo di Gignese: infatti, in un dépliant illustrativo non datato a cura della Piccinino è riportato un piccolo Dizionarietto Tarùsc Italiano. Nella recente Guida (del 1989) ve n’è soltanto un cenno, senza citazioni di parole o motti. Non si trova nulla o quasi nelle opere, anche recenti, peraltro meritorie, che si sono occupate della storia del Vergante. Unica eccezione, e pubblicazioni di padre Manni, nel 1968 e nel 1973 diede alle stampe due volumetti: nel primo si occupò del suo paese e degli abitanti (Massino e i suoi lusciát) e dopo aver pazientemente ricostruite le genealogie di vari gruppi familiari, si soffermò diffusamente sul Tarùsc. A questo dedicò la sua seconda opera Il Tarùsc, la parlata degli ombrellai. Dizionarietto etimologico); un agile manuale, davvero prezioso, raccoglie tutti o quasi i vocaboli gergali, le frasi più tipiche e caratteristiche e la loro costruzione grammaticale, ma tenta anche di risalire all’etimologia dei vari vocaboli, cercando di individuare gli influssi d’altri dialetti o lingue che avrebbero potuto contribuire a modificare una preesistente parola dialettale locale o a crearne una nuova. Purtroppo questi due libri sono oggi molto difficilmente reperibili. Consiglio la lettura. Partendo da queste due pubblicazioni cercherò di ricostruire un pezzo della storia dei nostri antenati. In definitiva, si ritiene che l'origine di queste parole gergali vada ricercata nei dialetti locali (un misto di lombardo alto piemontese, anche con influssi liguri) ed aggiungo anche l’influsso ladino ed alcuni vocaboli forse siano importati probabilmente dai primi ombrellai, venuti a contatto con gli abitanti di regioni o zone vicine, che spesso parlavano dialetti simili al loro. A differenza di molti autorevoli autori e ricercatori penso che, con il miglioramento delle comunicazioni altri vocaboli siano aggiunti, adattandoli nella pronuncia, oppure modificandone talora il significato abituale, fors'anche creandone dei nuovi per assonanza od imitazione. Non va dimenticato che, sino ad oltre la metà del secolo scorso, gran parte della popolazione usava preferibilmente, se non soltanto, il dialetto e, quindi, non può sorprendere che l'influsso della lingua italiana sia stato minimo, talora nullo. Cosa che invece, si verificò per le lingue straniere, in quel tempo ancora usate dal popolo con deformazioni dialettali. Da non trascurare i rapporti ed i contatti con elementi provenienti dalla Savoia e dai Cantoni Svizzeri (lingua ladina)che, avvenivano per la comune frequentazione di fiere e mercati. Sono anche da ricordare le parlate walzer (ancora oggi usate) d’alcune vicine vallate alpine, come Alagna, Macugnaga, Formazza. Solo con il traforo del Sempione, l’attuale provincia di Verbania e parte dell'alto Novarese trovava uno sbocco internazionale che si aggiungeva alla regionalizazione in corso. Per tutti i secoli passati non esistevano le scuole e l'istruzione, per pochi e molto spesso legata alla chiesa. Mi è sembrato doveroso e necessario dedicare una riflessione a questa parlata gergale, ríproponendone i vocaboli e, talora, cercando di risalire alle etimologie, avvalendomi (oltre che, naturalmente, delle opere del Manni, della Piccinino e dell'Ambrosini del Prini e dell'Aghina) anche della recente pubblicazione del Cortelazzo e del Marcato, nella quale, purtroppo, si possono trovare soltanto richiami indiretti da termini dialettali delle vicine province, più volte ricordate: Lúsciàt e Tarùsc. Il primo ha un suo preciso riferimento alla parola che, nel dialetto locale, indica la pioggia ed anche l'acqua: Lúscià, talora si trova scritta slùscià, con i relativi verbi lúscíà o slùscià per piovere (ed anche, per traslato, orinare). In seguito il termine passò ad indicare l'arnese che ripara dalla pioggia, l'ombrello o parapioggia, e, di conseguenza ne derivò anche lúsciàt, cioè l'ombrellaio. Il Ferrero ricorda la parola lúsa con il significato appunto d’acqua, propria dei gerghi artigianali delle vallate alpine. E' necessario, dapprima, cercare di interpretare la parola Tarùsc. Particolare ed intricata è l'etimologia di Tarùsc: nell’originario dialetto con questo termine, s’indicava «quel residuo che si raccoglieva assieme al terreno, là dove era stato depositato un cumulo di letame o di fogliame». Tarùsc sta per “Risigusc” che significa la segatura del legno, del lavoro del falegname, smusc per angolo, spigolo ecc. ), ecco perché è troppo semplice la teoria di un unico mestiere, mi ricordo che nella falegnameria che ho avuto l’opportunità di lavorare nelle vacanze del1952, molti degli operai parlavano sul lavoro con quest’idioma. Come si poteva giustificare il suo uso per indicare una particolare parlata gergale? Un ricercatore cercò di individuarne la derivazione da una lingua straniera, dal tedesco, e in altre parole da Tarnung = mascheramento, o da tarnen = mascherare, camuffarsi. Se ne potrebbe, quindi, dedurre che i primi lúsciàt trovarono foneticamente collegabili queste parole germaniche (tra l'altro anche mal pronunziate) con un vocabolo familiare, attribuendogli un significato ben diverso, ma consono alle loro esigenze. Una considerazione nei paesi dell'alto vergante ci sono stati vari insediamenti della popolazione germanica, inoltre come molti nostri connazionali, siamo un popolo d’emigrazione, è probabile che al rientro ogni emigrato abbia riportato un pò del modo dove ha vissuto. Troviamo dei Brisinesi o dell'alto vergante oltre che in molte città Italiane, Torino, Genova, Milano, Roma, Napoli e province limitrofe. Incontriamo dei discendenti che, più delle volte non parlano italiano ma il dialetto, anche in Francia, Svizzera, Germania, Brasile nel MatoGrosso, Argentina, Venezuela, Stati Uniti, Australia e Africa meridionale. A Buenos Aires nel 1965 al mercato dell’antiquariato di Sant’Elmo ho trattato l’acquisto di libri, (la storia dei comuni italiani ed. 1880), con un signore molto anziano che parlava il Tarùsc. Era partito per l’Argentina, dal lago, con i genitori nel 1890. Dal canto suo il Ferrero cita il termine Taròn che indicava “un gergo parlato da mestieranti girovaghi delle vallate alpine” e che, in alcune località, diventava Tarùc ed anche Tarùsc senza peraltro addentrarsi in questioni etimologiche. Oggi la parola “taròn” impropriamente è usata in senso dispregiativo. Da citare, soltanto per curiosità, si vuole far risalire ai Taurisci, popolazione che precedette i Leponzi in questo territorio; il che naturalmente non regge nemmeno per ipotesi. Per molti vocaboli troviamo derivazioni da lingue straniere.
Da molti anni, infatti, la moda del folclore, del mondo contadino, dei mestieri, della genuinità dei cibi o stile di vita delle comunità minori emarginate; investe i consumi alimentari, le fogge dell’abbigliamento, la produzione di mobili, l’industria del tempo libero. Nel rivedere questa ricerca, mi sono trovato improvvisamente impegnato ad affrontare, in termini nuovi, le ragioni stesse del lavoro per renderne più esplicite le motivazioni e gli scopi e per distinguere la posizione dai facili entusiasti. Una ricerca necessaria iniziata nell’estate del 1948, non già per una boriosa difesa della propria “originalità” di ricerca, ma proseguire serenamente nella curiosità, a beneficio di chi continuerà a guardare con interesse al “mondo popolare”. L’improvviso accendersi dell’interesse per il folclore nel nostro Paese segue analoghi entusiasmi che, già da tempo, si erano manifestati in altre società industriali avanzate: si può dire, anzi, che il fenomeno in sé, è, per certi versi, il sintomo di un benessere economico che inizia a diffondersi in tutti gli strati sociali. Nasce il desiderio di superare gli aspetti più consumistici di una società industrialmente avanzata che, induce una massa sempre più larga d’abitanti dei centri urbani a guardare, con nuovo interesse, le piccole comunità o i luoghi ancora “incontaminati” della vita popolare cittadina come, per esempio, il mercato o l’osteria. L’esplorazione dei luoghi e condizioni di vita delle classi subalterne non è nuova. Si può dire, anzi, che mai ha cessato, già da tempi lontani, di stimolare l’attenzione e l’interesse di una ristretta élite intellettuale, sollecitata dal desiderio di scoprire fatti, situazioni e valori estranei all’alta cultura. Gli appunti di viaggio di scrittori famosi sono ricchi d’annotazioni e spunti sulla vita popolare urbana e agro-pastorale, dalla descrizione della festa dei friggitori di frittelle vista da Goethe a Napoli nel giorno di s. Giuseppe alle impressioni di Lawrence durante un soggiorno in Sardegna. Accanto alle spigolature curiose, vi è una vasta letteratura antropologica che dopo le lontane e solitarie, ma straordinariamente precorritrici, meditazioni di Montaigne, trova solidi presupposti negli illuministi francesi, in Spencer, in Taylor, in Morgan, in Marx e, recentemente, in Gramsci e De Martino. Nel solco tracciato da questi “maestri del pensiero” si sono sviluppate le indagini di folcloristi e di etnografi. Certo non sarà per me facile questo lavoro, non voglio paragonare a nessuno degli illustri nomi citati, continuerò raccogliere i dati così come iniziato dal lontano 1948 per poi assemblarli e far parlare al testo un'unica idioma “Il Tarùsc”. Una “guida” al Tarùsc, potrebbe limitarsi all’elenco e alla descrizione di lavoro, mestieri, feste, riti, cerimonie, canti, balli, di sistemi d’abbigliamento che, sappiamo appagare la curiosità del nuovo e del diverso. Nasce il bisogno di consumare spettacoli e di evadere dai ritmi della vita cittadina. Certamente in questo testo non mancheranno le informazioni sui momenti più originali e sugli aspetti meno noti della vita tradizionale dei pastori, dei contadini, dei pescatori, degli ombrellai e degli artigiani dell’alto vergante ed in particolare di Brisino. Diventa interessante assistere alle varie manifestazioni, ancora carichi di suggestione, nonostante gli interventi delle Pro Loco e d’altre organizzazioni che disciplinano i protagonisti per incrementare l’affluenza turistica. Sarà interessante notare che, in questi casi, gli stessi protagonisti entrano nel ruolo di portatori di folclore e si rappresentano come autentici esponenti della cultura locale per appagare la curiosità dei forestieri. Il folclorista mette in conto senza scandalo questo distacco dalla cerimonialità tradizionale perché sa che, in un Carnevale, in una processione, in un rito di maggio o di Capodanno, vi è vita segreta, più interna, entro la quale indagare per cogliere le ragioni vere e i tratti culturali decisivi che inducono un gruppo sociale, rispettando ricorrenze fisse, ad abbigliarsi in modo eccentrico e a dar luogo a comportamenti festosi che, di là dai mutamenti, degli aggiornamenti e delle regie, perpetuano rituali antichi con significati che talvolta restano oscuri. Proprio il Carnevale, con la sua esplosione di spettacolarità ubbidisce a bisogni insopprimibili. Un “mondo alla rovescia” che occorre collocare nei meccanismi compensativi elaborati dalla comunità. Un rovesciamento dei dati di fatto che nella vita quotidiana agiscono senza alternative. Del resto il rovesciamento è già implicito nella gratuità delle cerimonie e dei comportamenti, nel protagonismo esasperato, nel travestimento sontuoso: tutto l’opposto, insomma, di quanto le condizioni di vita e di lavoro impongono nel corso dell’anno. I rischi più gravi si corrono se l’invito dell’etnografo ad avviare un confronto segreto col “mondo popolare” si traduce in safari folcloristici dove non si sa più se i personaggi pittoreschi da osservare sono i contadini e i pastori o le frotte dei turisti. Il giovane che si pone il problema, di conoscere meglio il nostro Paese dovrebbe recarsi presso comunità minori, venire a contatto con i coetanei, prendere coscienza di condizioni di vita e di lavoro che in molte comunità alpine, appenniniche, meridionali e insulari si ri-propongono secondo modalità “arcaiche”. Scoprirà allora che, in molti casi, la tecnologia più tradizionale (basata sull’energia delle braccia, o degli animali, o del vento o dell’acqua) resta immutata perché è l’unica praticabile; e che antiche modalità di coltivazione e d’allevamento degli animali ubbidiscono alla primaria necessità di nutrirsi e di costruire un riparo. Lo stretto rapporto tra tecnologia, in pratica attrezzi di lavoro o macchine elementari, e risorse ambientali è uno dei pochi tratti culturali che unificano contadini, pastori, pescatori e artigiani di regioni diverse; mentre l’analisi dei prodotti culturali, non materiali, come il canto, la danza, l’espressione linguistica, la vita cerimoniale, svela normalmente forti differenziazioni. Le ricerche fin qui condotte spiegano, solo in parte, i dati accumulati in anni di rilevazioni. Parliamo di responsabilità politiche nuove che, si sono poste agli studiosi d’etnografia e folclore, dall'ultimo dopo guerra, intende riferirsi all’atteggiamento da assumere di fronte a quelle condizioni d’arretratezza, e talvolta di miseria, che fa da supporto ai fenomeni oggetto di studio, tramandati con un costo sociale molto elevato; se, insomma, si propugna una società più moderna, più giusta è difficile non augurarsi che le comunità minori superino quei ritardi soprattutto economici, di fatto, le emarginano nei processi di trasformazione in atto. Le cose non sono così semplici. In primo luogo, chi cerca, che è uomo di passaggio, anche se prolunga per anni il suo soggiorno di studio, non può correttamente sollecitare processi di cambiamento se poi non è in grado di parteciparvi attivamente; in secondo luogo, non tutti i tratti culturali e le comunità minori, sono da considerare residua sopravvivenza di condizioni di vita e di lavoro da rimuovere. Beni alimentari e manufatti artigianali s’inseriscono felicemente nel mercato locale e in quello urbano e garantiscono, a diverse piccole comunità, un reddito stabile e sicuro; e non è detto che, per inserirsi efficacemente nei ritmi di una società moderna, si debbano necessariamente rimuovere feste, canti, balli, tradizioni, luoghi di lavoro, abitazioni. Una volta superata il pregiudizio che relegava la cultura popolare in una sfera naturalistica, si parlò a lungo, per le società primitive, di popoli di natura, si è acquisita coscienza della storicità dei fatti etnografici. Non basta più osservare che certi riti “si perdono nella notte dei tempi”, che l’abbigliamento tradizionale, lo stile di costruzione delle case o un repertorio di canti esistono da tempi immemorabili.
C i troviamo un compito d’enorme difficoltà che ha prodotto risultati non sempre soddisfacenti ma che è necessario per superare stucchevoli genericità e per coinvolgere utilmente, da protagonisti attivi, quegli uomini che i folcloristi ottocenteschi chiamavano “portatori” e che oggi non possiamo più limitarci a considerare soltanto “informatori”. L’aiuto concreto che il ricercatore può dare sta nella capacità di compiere il suo lavoro apertamente, confrontando i risultati e i problemi con quegli stessi soggetti che hanno offerto collaborazione e aiuto. I fatti che l’etnografia offre alla nostra attenzione sono stratificazioni d’avvenimenti passati, assunti in forma frammentaria, secondo i bisogni e le relative risposte che una comunità, nel suo insieme, elabora. Acquisita la consapevolezza della “storicità” dei tratti culturali si fa più acuto il problema della loro rimozione. Modi drammaticamente anacronistici di affrontare crisi esistenziali scatenate dalla malattia e dalla morte, si pensi al lamento funebre, o a pratiche terapeutiche crudeli, inefficaci o del tutto superstiziose, sono in estinzione e, quando vengono rilevate come oggetto di studio, difficilmente un etnografo, desideroso di appartenere degnamente a una comunità di ricercatori che si qualificano “scienziati dell’uomo”, si sottrae alla speranza che tali fenomeni non debbano più potersi indagare “dal vivo” ma soltanto attraverso il resoconto di vecchie testimonianze. Accanto ai tratti culturali da rimuovere e superare ve ne sono altri che vorremmo largamente diffusi e che appartengono a quella condizione ideale di un’umanità nuova, “redenta” dagli effetti perversi del consumisrno; tratti culturali che, in molti casi, proprio i giovani delle città, tentano di costruire inventando modi di vita e di svago nuovi e alternativi. Pensiamo alle musiche, ai balli, alle feste, alle particolari modalità di aggregazione che, in nome del progresso, dell’aspirazione ad assumere moduli di vita urbana, vengono dalle piccole comunità in trasformazione eliminati per sempre. La bettola diventa un bar chiassoso con musica registrata e giochi elettronici mentre i luoghi destinati al ballo restano deserti si popolano le discoteche. Nel frattempo i giovani delle città si affannano a cercare vecchie osterie per bere il vino e giocare a carte o si riversano nelle piazze per suonare e ballare. In certi casi pare di assistere alla gara di due mondi che rischiano, in nome della modernità, di inseguirsi senza mai raggiungersi proprio, quando le differenze città-campagna sembra annullarsi. Grazie ad amministrazioni comunali dinamiche e attente, grazie alle sollecitazioni di studiosi locali o alla sensibilità nuova diffusasi in larghi strati della popolazione, capiterà di imbattersi in piccoli musei etnografici, es. il museo di Gignese, i mulini riattivati in case, piazze, cascine restaurate e “restituite” alla comunità. A volte la motivazione è l’orgoglio municipalistico di rendere vivibile, per se stessi il proprio paese; in altri casi, con la riesumazione, talvolta improbabile, di antiche feste, di canti di balli andati in disuso, si creano attrazioni turistiche da associare alla salubrità alla bellezza naturale dei luoghi.
Inserire foto la Patafjeta.
Come si vede, anche una sommaria valutazione di ciò che un viaggiatore non distratto può osservare aggirandosi nelle comunità minori, sfugge a rilevanti e definitive classificazioni: e, infatti, lo studio dell’etnografia si basa più sulle distinzioni, che sulle categoriche affermazioni. Non a caso i contributi più seri si avvalgono degli strumenti concettuali più ricercati che la cultura produce. Quel che appare certo è che la cultura popolare è essenzialmente orale. L’oralità non è soltanto da intendersi come un dispositivo per tramandare canti e testi verbali formalizzati, in versi o in prosa, ma anche come trasmissione di tecniche per costruire gli attrezzi di lavoro o una casa, per allevare gli animali e coltivare i campi, per riconoscere le piante e le erbe adatte all’alimentazione e alla cura della salute. Oralmente sono tramandati anche i nomi dei luoghi, il racconto talvolta realistico e talvolta leggendario, di fatti ed esperienze vissute nel passato. Apparirà evidente la presenza, nella vita tradizionale, di residui consistenti delle esperienze storiche e culturali lasciate in eredità dalle classi dominanti. Evidente che tali eredità erano più consistenti in un contadino piemontese o toscano piuttosto che in un bracciante alpino, lucano o in un pastore sardo. Nel primo caso, tra “mondo popolare” ed élite intellettuale, vi erano contatti e persino scambi, negli altri casi, al contrario, probabilmente, erano più sporadici o quasi inesistenti. La montagna ha da sempre diviso la società. Nella sedimentazione d’arcaicità e di singole esperienze culturali del passato si fa notare il percorso storico di una comunità e la costruzione di una visione complessiva del mondo, accanto alla capacità di interrogarlo e di darsi risposte. Si sposta l’attenzione, dalla comunità nel suo insieme, al singolo caso umano che, in modo esemplare, può sottoporre a verifica il punto di vista del ricercatore, il problema si pone con contorni più definiti. Un uomo è un erede e un produttore di cultura che “legge” la realtà, vi si adatta e, quando può, la trasforma. A questi fini eredita ed elabora tecniche adatte a soddisfare i bisogni materiali. Produce o rielabora comportamenti festosi per appagare le esigenze di socializzazione, assimila o reinventa spiegazioni per capire secondo criteri naturali, soprannaturali, magici e scientifici gli eventi dell’ambiente fisico e umano entro il quale agisce. Nel riconoscergli l’integrità d’uomo pensante possiamo notare il più spregiudicato accostamento di tratti residuali dell’élite sociale accanto ad altri, del tutto originali, elaborati autonomamente entro il gruppo di appartenenza. La capacità di individuare questi due diversi aspetti del mondo popolare si potrebbe forse proporre come spunto appassionante per il viaggiare con questo testo nel passato della comunità del vergante, in particolare nella società Brisinese e nell’idioma scomparso del “Tarùsc”.
Era la lingua di casa mia, dei miei antenati(*) che, ho sempre cercato di non dimenticare insieme a tante altre cose dei miei genitori. Al rientro dal collegio, si sforzavano di usare l’italiano, io scivolavo con piacere, per aiutarli, nel dialetto nel Tarùsc. I dialetti entrano anche a raccontare una vicenda sociale: l’emigrazione, ma non quella remota, quella più nuova, Oggi, quando la scelta non è tra fame nera e partire, ma nell’emigrare c’entra la voglia di avere «più soldi - e c’entra anche il bisogno più evoluto di guardare il mondo. Dietro il tema dell’emigrazione e del ritorno, fa intravedere la dialettica ormai non più lineare fra Tradizione e Progresso: il progresso oggi dove si annida. Dove è la vera qualità della vita, in città o nei paesi? Quello che si può già pensare, è che l’italiano d’oggi va riducendosi a gran velocità alle duemila, forse duecento parole usate in televisione. Più quel po’ di inglese d’uso citato perfino dall’altero Devoto-Oli che ingloba nella sua ultima edizione. I dialetti sono pertanto dei forzieri: pronti, lì, per ridare alla lingua di chi narra originalità, sapori forti e regalare parole per esprimere sentimenti altrimenti fuori uso.
(*) L’atto notarile di divisione del 1750, il mestiere del mio trisavolo Cesare Battista, era l’ombrellaio e della mia trisavola MariaTeresa.
Inserire foto Gioco della Morra.
Stesura incompleta
1a correzione dicembre 2010
2. LE NORME
II Capitolo.
Le norme.
Origine dei vocaboli e frasi idiomatiche. Pronomi ed aggettivi possessivi. La terminologia dei numeri. Vocaboli d’uso comune. La corretta pronuncia del Tarùsc. Particolarità ed Aggiornamenti. Glossario. Emigranti. Il dizionario etimologico. La famiglia. La Crugia, la casa. Zapin, utensili ed arredo. Gli animali, la loro casa e la cascina. Gli alimenti. L’arcumenta, l’abbigliamento. Il corpo umano. Autorità e paesi. Artusc, mestieri. L’ombrellaio. Strumenti dell’ombrellaio e del mulita. Gergo dei venditori ambulanti nei mercati. Tempo, misure e monete. Numeri. Al taruscin alla patafièta, (all’osteria). Mager e magera. Verbu e part, avverbi, particelle. Ausiliari e preposizioni. Verb. La coniugazione dei verbi.
Manca l’introduzione. (*)
A = arabo, C = luoghi, E = ebraico, Et = etimologie, F = Francese, I = Inglese, S = significato simbolico, O = tipici termini per indicare lo straniero, P = portoghese, Pi = Piemontese,T = tedesco, Ta = Tarùsc Z = altre locuzioni.
Tarùsc Italiano Descrizione
T bergna denaro Da bergen, mettere al sicuro, celare, quindi anche cose da nascondere, come appunto il denaro.
bull paese
bulla città Da Burg.
buscàu cesso Da Busch, cespuglio, boschetto, dove cioè l'ambulante poteva nascondersi per soddisfare i propri bisogni corporali.
casèr capo Padrone (da Kaiser)
gnùfèl bambino Ragazzino, da Gnufel, piccolo, debole.
guzà piacere Da gut, buono, bene;
músa minestra Da Mus, pappa, passata
cartòfel patata Da Kartoffel, appunto patata
scabià bere
scabi bevanda Da Schank, osteria, mescita
smèssar coltello Da Messer, coltello
tràmpul salame Più difficile è collegare
Trampel sciocco Con, persona goffa, sciocco (nell’attuale dialetto si dice “salam”
F colúbìn caffè Forse da coulant, che gocciola, cola, fluido.
gèrb pane Da gerbe, covone di grano
múss gatto Da se musser, nascondersi
patin letto Da patin, tavolaccio di caserma
tapà parlare Da tapage, schiamazzo
turnèla polenta Da tourner, girare, con il mestolo.
I bèf sedere Natiche - da beef manzo, carne e, per traslato, il richiamo anatomico è abbastanza ovvio.
milk latte Non richiede di spiegazione
mùss gatto A mause, una stranezza si chiama gatto con il nome del topo.
A
E tàréf Infetto bacato, tarlato, impuro agg. dall’ebraico tàrèph, sbranato dilaniato, poi cibo vietato, carne non macellata secondo il rito ebraico
S
Molti vocaboli traggono origine da assonanze o da similitudini; ad altri è attribuito un significato quasi simbolico: così, ad es.
mànja moglie Donna, da maniglia o anche manégía - palo di sostegno cioè qualcuno di cui potersi fidare, con cui potersi aprire, da cui esser sostenuto e trovare o dare protezione e sicurezza.
pastón risotto Come il pastone per gli animali.
feriò mantello Mantello da ferraíolo.
piulàt ubriacone Un frequenttore d’osterie.
vasciàga sgualdrina Da vascíàg – maiale.
batagìn orologio Che batte le ore. Da batach,
t’zùrla prete Per il Manni forse da un cardinal Zurla, nel '800 vicario di stato (per inciso ricordo che lo Stendhal nella Certosa di Parma cita, tra gli altri, un conte Zurla.
Caratteristici i termini per indicare alcune attività: es. medico e macellaio- l'uno squarta, rompe, gli uomini, l'altro i vitelli ecc.);
sbrúgnabacàgn medico Così il medico è lo sbrúgnabacàgn.
macellaio sbrúgnamajòl Macellaio come il è lo sbrúgnamajòl.
strozzabacàgn l'avvocato E non necessita di spiegazione.
zúfabacàgn carabiniere Da zúfà, prendere.
lo scarabucín lo scrivano
O Tipici anche i termini usati per indicare gli stranieri:
i brùcbèja i francesi Così sono i in altre parole i barbuti, i francesi rif. ai Galli.
i scíuchítón i tedeschi Che è cocciuto, testardo.
i bragkìna gli svizzeri Dai tipici calzoni o braghe dei montanari.
il pùriàn
taròn meridionali Di più difficile interpretazione è il pùriàn per indicare i napoletani ed i meridionali in genere, dal Pò in giù.
rascòn veneti Il nord-est dell’Italia.
Z Altre locuzioni caratteristiche:
il casèr del rundèl Dio Il capo, il padrone del mondo, in altre parole Dio.
il casèr di casèr Re Il capo dei capi, il re, l’imperatore.
il casèr di zúrla il Papa Il capo dei preti, il Papa
il casèr di bull il sindaco Il capo della città, il sindaco
casèr di mànji il sindaco Fino alla fine del 700’, è però davvero strano come si trova talora tradotto come "sindaco", il che è spiegabile soltanto con il fatto che, essendo emigrati per lavoro tutti gli uomini, nel paese erano rimaste solo le donne e quindi il sindaco aveva autorità solo su di esse.
il casèr di raspànt Il gallo Il capo delle galline, il gallo
casèr di mànji il lenone Sino al più complicato casèr di mànji il capo o padrone delle donne, cioè il lenone, il mezzano.
E’ però davvero strano come lo trovi talora tradotto come "sindaco, il che è spiegabile soltanto con il fatto che, essendo emigrati per lavoro tutti gli uomini, nel paese erano rimaste solo le donne e quindi il sindaco aveva autorità solo su di esse.
C Ed ecco i nomi di alcune città
Carscíàn Milano Non si trovano le origini oggi Carsciàn è una piccola frazione di Stresa.
carscianes Milanese per lombardo.
Pi
P
bulla del zúrla Roma Roma è la bulla del zúrla (la città del prete),
bulla del tor Torino Torino è la città del toro - bulla del tor
A proposito di etimologie può essere interessante ricordare come il Ferrero ritenga che:
Et lofi e lofio cioè brutto e cattivo deriverebbe da «loffa, suono imitativo per scoraggia non rumorosa», il che troverebbe riscontro anche in gerghi non italiani, ad esempio nell'argot francese, nel quale “loffe" significa semplice, di poche pretese. Cortelazzo e Marcato, invece, lo riferiscono ad una «probabile origine imitativa, da loffa - vento.
tartì defecare Possiamo riferirci ad una derivazione da - tortire, in altre parole torcere, in quanto chi si sgrava piega il corpo - (Ferrero).
* ) un cenno veloce e poi ci ritornerò.
Nei pronomi e negli aggettivi Possessivi vi è un riferimento poco spiegabile
Poco spiegabile Ad un “Tona “o Toni.
al mè tóna
io
al tò tóna tu
Ecc. al so tòna
al vos tòna
e così di seguito
del mè tóna è per mio e così via
(*) da terminare.
zero nient venti russìn Significa anche marengo
uno spuntòn Forse per il dito che "spunta"
dal pugno per indicarlo; ventuno Russinspunton
due silvèster Non si capisce il perché, salvo che
non trovi origine in una moneta d'argento. trenta
tre trént Che significa anche forchetta, f
orse da tridente quaranta
quattro pala Mano chiusa cinquanta
cinque sgrifia In pratica tutta la mano sessanta
sei dó trént Due volte tre settanta
sette pala e trént Quattro più tre, talora è detto
anche furchitón. ottanta
otto dó pall Due volte quattro. novanta
nove pala e sgrífia Quattro più cinque cento
dieci mina russìn La metà di venti duecento
undici trecento
dodici quattrocento
tredici cinquecento
quattordici seicento
quindici settecento
sedici ottocento
diciassette novecento
diciotto
diciannove mille
venti russìn Significa anche marengo diecimila
ecc. e così di seguito (più avanti riprenderemo l’analisi dei numeri
(*) a e b, manca l’introduzione.
E' da rilevare che alcuni vocaboli indicano cose molto diverse tra loro e non facilmente collegabili. L'esempio più tipico è tinajn (tenajn) che starebbe ad indicare il rosario per la preghiera e/o piccola tenaglia, ma che talora s’incontra citato come "il grappino". Così anche cotizà-sistemare, ma anche defraudare; grià - aggiustare, ma anche imbrogliare, ecc. Come sarà apparso evidente, le etimologie in genere non sono facilmente individuabili e con una certa probabilità si dovrebbe cercarle in locuzioni dialettali delle zone viciniori. Sarebbe molto auspicabile che qualche studioso di dialettologia o di linguistica ne tentasse uno studio sistematico. Mi è sembrato, invece, utile far seguire a questo lavoro un piccolo dizionarietto, (certamente incompleto e sarà aggiornato ogni qualvolta arriveranno nuovi vocaboli), mutuandolo sia dal Manni sia dal dépliant curato dalla Piccinino e dall'Aghina: tra le tre versioni esistono alcune differenze d’ortografia e di fonetica.
Non va dimenticato, a tal proposito, che di questo gergo esiste e/o sono reperibili attendibili documentazioni scritte e, quindi, la trascrizione del linguaggio parlato non è semplice e si presta inevitabilmente a dissonanze ed errori. Infatti, il Manni fa un esplicito riferimento alla parlata massinese, la Piccinino a quella di Gignese e dintorni, si sono aggiunte naturalmente tutte le parole che ho sentito la prima volta da mia madre e dall’anziano amico "il Tunin" Brisinese ( Urckin) che hanno avuto la capacità di appassionarmi e trasmettermi la loro conoscenza el Tarùsc. Mi è sembrato in genere preferibile seguire quest'ultima, che coincide anche con lontani miei ricordi. Alcuni, forse anche molti dei vocaboli elencati nel dizionarietto, probabilmente non sono tipicamente Tarùsc, ma piuttosto del nuovo dialetto locale non mi è sembrato opportuno farne una distinzione, in quanto ho preferito evidenziare un quadro, il più possibile completo, del modo di esprimersi, di comunicare di questi emigranti che, ovviamente, usavano indifferentemente sia il proprio dialetto natio sia il gergo che si andava formando, contraddizioni. Non troverete tutto, ma un piccolo vocabolario con molte particolarità, la storia delle origini della lingua ed i possibili riferimenti. Il resto del documento, la storia di Brisino. Intanto che cos'è il Tarùsch. Una lingua dei nostri vecchi “si dice “ fatta rivivere dagli ombrellai dei paesi collocati sulle colline dell'alto vergante, in cerca di fortuna per l'Italia e nel mondo; un modo come riconoscersi e per non soccombere, mi sembra poco, voglio pensare ad una parlata locale che è stata cannibalizzata dal progresso, oggi chiamiamo globalizzazione.
(*)
Un esempio di vocaboli di uso corrente che talvolta si differenziano tra paese e paese o anche nello stesso comune. In fatti la parlata di Brisino è diversa da Magognino, di Stresa e di Massino il paese di mia madre.
biròn zotico contadino
bacán Il non lusciát. Tutti quelli che non facevano gli ombrellai.
buzur Nel tardo 800’ era chiamato chi faceva il manovale.
agúzìn
gùzin l’usuraio Non c’è bisogno di commentare
rìbas no Un no irrevocabile
mager bello e buono Sembra quasi un complimento verso belle persone, bella magera, una bella donna
catúfíá prigione Si usa ancora oggi
minìn bacio Quasi una carezza non è mai un bacio appassionato ma dato tra parenti.
stafèl formaggio Dal tedesco
lúscà vedere
balmèla guardare Non riesco trovare un collegamento
barsèla negozio Tipica borsa a tracolla dei primi lusciát, con gli arnesi del mestiere.
bernarda serva Cameriera al servizio del padrone del paese un po’ come la perpetua del prete, t’zurla,
Introdotta come un fatto tipico maschilista verso una donna disponibile.
tèfía gravida E qua non c’e nessuna differenza tra una persona e gli animali
marisca fidanzata
pisèla Scudo, Questa non fa riferimento a nessun dialetto dei dintorni
Carlin
schavatin Lira
calzolaio
Norme per la corretta pronuncia del Tarùsc. ( da terminare)
a, e,
con l’apostrofo a‘,e’ Viene inserita al posto della dieresi a,e, cambiata si confondono in una medesima pronuncia la¬biale che sta fra la a, é la e.
- u,
con l’apostrofo ù al posto della u con la dieresi, richiede una pronuncia labiale stretta come nella u dei lombardi. Manca nella mia tastiera la dieresi per la “u”
eu Come nell’eguale dittongo il dittongo francese,
- ^ accento Prolungato su di una vocale o, un dittongo. ^
Es. Altri esempi
t’s ed il t’z
1 Singolarità del parlare alto vergane è il t's
ed il t'z in principio di parola ad esempio, t'zuca (zucca).
2 Barsèla è la pronuncia taruscína Mentre Barsella rappresenta la corrispondente stesura italianizzata.
3 la terminazione del singolare Es. lusciát anziché del plurale del tarùsc.
Nota Abbiamo adottato la terminazione del singolare, lusciát anziché del plurale del tarùsc, luscièt per la ragione che, sulla bocca dei profani al tarùsc, è meglio compreso al singolare.
Molti dei segni elencati non sono presenti sulla tastiera del mio computer.
Primo aggiornamento 1970.
Pronuncia e
grafica Le grafie delle diverse fonti utilizzate generalmente sono state semplificate ed uniformate. È stato usato in tutti i casi possibili il sistema ortografico italiano, integrato da alcuni segni diacritici per mantenere le varianti notevoli di pronuncia tra i diversi dialetti.
L'accento (quando non indicato, in parole plurisíllabe, s’intende parossitono) è segnato grave (‘) sulle vocali, ma per e ed o si distingue tra accento grave (è/ò) ed acuto (é / ó) per differenziare an che il timbro, rispettivamente aperto (o intermedio) e chiuso.
e ( - ). a, o, ú Il trattino orizzontale sulla vocale segnala la vocale lunga (es.: a). La vocale nasalízzata è contrassegnata dalla tilde ( - ). a, o, ú, indicano vocale turbata; e; vocale evanescente; ì vocale dieresizzata, è la semívocale.
Per le consonanti sono stati utilizzati i seguenti simboli fonetici:
- c' c dell'Italiano cena in posizione finale.
- c c dell'italiano cane in posizione finale
- g' g dell'Italiano gente in posizione finale
- g g dell'italiano gatto in posizione finale
- z z sorda
- z’ z sonora
- s s sorda
- s' s sonora (non si tien conto dei nessi automatici del tipo sb, sg, sv
- s^ corrisponde allo sc della grafia italiana
- z^ rende un suono simile a quello del francese j dí jòur
- t., d. Cacuminali.
- zh, dh Interdentali, rispettivamente sorda (come nell'inglese thing) e sonora (come nell'inglese that).
(es. s-c), (*) Altri simboli. Il trattino tra due lettere indica suoni separati (es. s-c). L'asterísco (*) precede forme etimologiche ricostruite, non attestate. Le traslitterazioni del greco, dell'arabo e di altri alfabeti non latini seguono le norme consuete.
Ordinamento alfabetico.
I lemmi sono ordinati in sequenza alfabetica stretta. In particolare, quelli composti di e più termini sono considerati, ai fini dell'ordine alfabetico, come se costituissero una parola sola. I segni diacritici non incidono sull'ordinamento, per il quale, inoltre, la l'i la j sono considerate equivalenti.
Abbreviazioni.
agg. = aggettivo; art. = articolo; avv. = avverbio; avverb. = avverbiale; escl. = esclamazione; fig. = figurato; imper. = imperativo; indef. = indefinito; inter. = interiezione; locuz. = locuzione; n. pr. = nome proprio; part. pass. = participio passato; plur. = plurale; prep. = preposizione; pron. pronome; scherz. = scherzoso; sett. = settentrionale; sf. = sostantivo femminile; sing. = singolare; sm. sostantivo maschile; sn. = sostantivo neutro; sostant. sostantivato; s.v., ss.vv. = sotto voce, voci; v. = verbo; var. = variante; verb. = verbale.
da aggiornare. (*)
Afèresi. Caduta di uno o più suoni all'inizio della parola.
Africata. Consonante che deriva dall'unione di una --- > occlusiva e di una--> costrittiva.
AggIutinazione Fusione di un elemento grammaticale (articolo, preposizione ecc.) nel vocabolo che segue.
Analogia Influenza esercitata da una parola sulla fori-nazione di un'altra.
Anaptíssí. Inserimento in un gruppo consonantico di una vocale.
Anomalia. Irregolarità delle forme dei nomi e dei verbi.
Arnifrasi. Figura retorica che consiste nell'usare una parola o un'espressione di senso contrario a ciò che si vuole dire realmente.
Antonomasia. Figura retorica che consiste nell'adoperare un nome comune in un'accezione particolare e universalmente nota, o un nome proprio famoso, per designare persone o cose che ne ripetano le caratteristiche.
Aplologia. Fenomeno linguistico per cui, in una sequenza di gruppi sillabici identici, uno risulta soppresso.
Assimilazione Fenomeno fonetico per cui si verifica l'adattamento di un suono a un altro che lo segue o lo precede.
Base. Forma linguistica che si ritiene originaria rispetto ad altre che la continuano.
Calco. Fenomeno linguistico per cui modelli lessicali e sintattici propri di una lingua sono limitati da un'altra.
Coronimo Nome di regione.
Costrittiva. Consonante la cui articolazione presuppone il restringimento del canale espiratorio e determina un soffio prolungato, più o meno vibrante.
Deglutinazione. Separazione di un suono originario all'inizio di una parola, avvertito come elemento grammaticale ( articolo preposizione eccetera, protonico.
Denominale. Verbo che deriva da un nome.
Dentale. Consonante articolata appoggiando la punta della lingua contro i denti.
Deverbale. Nome che deriva da un Verbo
Dissimilazione. Fenomeno fonetico per cui fra due suoni simili o identici di una determinata sequenza si verifica la tendenza a differenziarsi.
Enantiosernia. Evoluzione semantica per cui un vocabolo assume un significato opposto a quello etimologico
Epèntesi. Inserzione di un elemento non etimologico (suono o sillaba) all'interno di una parola.
Epitesi. Aggiunta di un elemento non etimologico (suono o sillaba) in fine vocabolo.
Interdentale. Consonante che si articola con l'apice della lingua fra gli incisivi superiori e inferiori.
Labiale. Suono che si articola per mezzo delle labbra.
Metaplasmo. Fenomeno per cui nel passaggio da una lingua a un'altra una parola cambia declinazione, coniugazione o, anche, numero o genere.
Metàtesi Mutamento all'interno di una parola dell'ordine di successione di uno o più suoni.
Morfema, Unità linguistica elementare fornita di significato, anche grammaticale.
Nasale. Consonante la cui articolazione avviene attraverso l'emissione di aria dalle fosse nasali.
Occlusiva. Consonante articolata con chiusura totale del canale fonatorio, cessata la quale segue un'esplosione dovuta all'improvviso espandersi dell'aria espirata.
Onomasiologia. Settore della linguistica che studia quali significanti o denominazioni indichino uno stesso significato.
Onomatopeico Relativo a un'espressione o a una parola che richiama in modo immediato un oggetto o un'azione imitandone il suono.
Palatale Consonante articolata facendo battere contro il palato duro il dorso della lingua.
Paretimologia. Etimologia apparente niente corretta, ma arbitraria in quanto priva di fondamento storico o scientifico.
Prefisso. Morfema (per lo più di origine Preposizionale o avverbiale) che si pone davanti a una radice o a un terna nominale o verbale, cori la funzione di precisarne o rafforzarne o, talora, anche capovolgerne il significato.
Pròstesi. Aggiunta di un elemento non etimologico. (suono o sillaba) all’inizio della parola.
Protònico. Relativo alla sillaba che precede quella accentata.
Retroformazione Formazione di una parola ottenuta da un'altra, a cui è stata soppressa una parte, per lo più il suffisso.
Sibilante Consonante nella cui articolazione l'aria espirata produce una sorta di sibilo o fruscio.
Sintagma. Raggruppamento minimo di elementi significativi che formano l'unità base e sintatticamente autonoma di una frase.
Sonora. Consonante la cui articolazione determina la vibrazione delle corde vocali.
Sorda. Consonante la cui articolazione non richiede la vibrazione delle corde vocali.
Suffisso Morfema che aggiunto a una radice serve a formare una nuova parola, coli significato specializzato.
Toponimo Nome di luogo,
Velare Consonante articolata toccando coli il dorso della lingua il velo palatino.
perché…
Peregrinando un po’ in tutte le direzioni, non solo i nostri lusciát riportavano ciascuno il proprio contributo all'accumulo del materiale greggio, ed in solidarietà, pur senza pianificazioni e pretese, collaboravano al formarsi del gergo proprio. Dico gergo, perché un fragile costrutto, per la sua artificiosità ed elastica convenzionalità, non può appropriarsi del titolo ono¬rifico di vera lingua. E' tuttavia sempre elemento di lingua viva l'ap¬porto che altre lingue, anche se in edizione vernacola, fanno confluire nell’eclettico nostro tarùsc. Come non mettere un pizzico di vanto anche in questo settore di lavoro ed attività vergatina. Anch'essa positiva non solo come aggan¬cio e come spinta reclamistica, ma significativo di una popolazione capace di rigenerarsi, inventando e creando nuovi mestieri. Un plauso al paese del rilancio o meglio agli or¬ganizzatori della reclame, a mezzo stampa, Musei e Convegni. A loro si deve se l'argomento è balzato in primo piano. L’inaugurazione del Monumento all’Ombrellaio d'Italia, in Massino Vi-sconti (sett. 1972), ha richiamato una piccola rappresentanza di vecchi Luscíàt ed ha fatto un pò di rilancio del Tarùsc come vernacolo di una categoria non del tutto tramontata.
Le parole si trovano raggruppate, secondo gli argomenti.
Per i pronomi e gli aggettivi possessivi diventò d'uso il nome di Tona (ossia Tonio) prescelto fra tanti altri nomi correnti nell'uso comune vergantino.
1. Pronomi 2. Aggettivi possessivi
io el me tona (oppure brigàl) mio del me tona (oppure brigàl)
tu el teu tona tuo del teu tona
egli, ella el seu tona suo del seu tona
noi el neust tona nostro del neust tona
voi el veust tona vostro del veust tona
loro el seu tona loro del seu tona
(*)
Bardasc e bardascia Figlio e figlia Questo vocabolo si trova anche in alcuni dialetti abruzzesi.
bernarda serva
(anche vagina) Si usava tal nome proprio, femminile, come già, specie nel milanese, si metteva in campo quello di perpetua.
cieusp o deèrbi vecchio padre Vecchio in genere, saggio
ciospa o deèrbia vecchia madre Vecchia in genere, saggia.
minu uomo (in genere), Suppone una certa reminiscenza dal latino homines (pl.) ed anche dello spagnolo hombre il quale pure significa uomo.
virlòn uomo-alquanto spregiativo La radice ci rimanda al latino vir (uomo) e la parola intera ci fa accostare allo spagnolo varòn (uomo). In it. diremmo: un pezzo d'uomo. Il tarùsc, che voleva evitare le cortesie, dava del " virlòn " ai contadini, comunemente detti, bacàn.
mazucà uomo sposato La parola potrebbe essere specificata la stesura riferita all'uomo che “l'ha metù su cà”, ha messo su casa.
l'ha metù su cà L’ha metù al sciucheta a partì (ha messo la testa al posto) Ma si può accettare il significato del ted. metze, " donna " cui uno si lega
mazucamént matrimonio
manija moglie (o donna in genere) Se il marito è la chiave per la porta di casa, la moglie però e la maniglia senza il cui ausilio la porta non si apre.
manìja téfia donna incinta L'aggettivo aggiunto fa delicato accenno al processo della maternità in corso, per il quale l’etimo fondamentale di teca e di tegia fa riconoscere un accostamento plausibile di " custodia " in grembo.
Nel biellese si usa cieusp e specialmente cieuspa nel senso di spregio, applicato alle persone anziane della casa.
marasà bagnato Inzuppato
gjuméll
e
gjumèla figlio
e
figlia I figli non erano unici ordinariamente, e perciò ognuno nei confronti dell'altro poteva essere detto gemello o gemella, non per il giorno della nascita, ma per il vincolo dello stesso sangue e dello stesso grembo.
gnufèl ragazzo Il termine in genere, fu preso di sana pianta dal gergo piemontese.
gnufèla ragazza Ragazza da maritare
gnazi servo - uomo di fatica L'appellativo ha significato d’uomo che deve stare sottomesso ad altri perché non è in grado di districarsi nei lavori.
marish fidanzato Come nel nostro dialetto la parola ha deposto l'a iniziale dandoci gli aggettivi muros e muròsa, così è avvenuto per i suddetti due termini taruscini, i quali stilizzano per qualche dialetto d'arca teutonica
marisha fidanzata
ormòna elemosina Cercata dai mendicanti e/o accattoni
bèrgna
sold denaro E' termine molto in uso in Alta Italia, ma suppone un etimo ted. Quale in berechnen, (calcolare).
brisòld ricco Il suffisso sold è ben esplicativo. Penso che la h iniziale fosse in partenza una t, facendo leggere trisold: e nel nostro dialetto dire che uno aveva tri-sold, significava definirlo un riccone Tenendo presente il ted. Brieftasche (portafogli) ci si sente pure instradati.
trisold ricccone
schèj (pl.) soldi
E' termine veneto che i lombardi hanno mutato in ghèj. Il tedesco chiama schein o scheck un biglietto (assegno) di banca.
pisèla lira Nel nostro dialetto il termine significa taccola (di piselli) d'uso corrispondente a quello delle cornette dei fagioli. El teu tona gh'a pisell
ruff fuoco E' del puro gergo pedemontano. Il lat. rufus, significa rosseggiante (come la fiamma).
tánajìn preghiera o rosario
le " tanaje " mandibole
tenaglie Sono le mandibole: e pregando si mettono in azione a mo - di tanaja e tanajin
squadràs confessarsi Alla buona confessione è connesso un buon esame di coscienza che è come uno squa¬drarsi o inquadrarsi.
crugia e/o crogia casa (o paese nativo) Fa pensare subito alla culla. Altrove si dice la, e questo aiuta meglio a capire che si accenna al sito più ritirato della casa, dove sta la culla, entro la quale si crugia (nell’alto vergante) l'ultimo nato. Per antonomasia si intende tutta la casa, anzi tutto il paese. Non siamo neppure lontani dal ted. kushee (letto, cuccia). Alla crugia correvano i pensieri più teneri e nostalgici dell’emigrante (dell'ombrellaio ) lontano.
crugìn casetta La casa dove abita tutta la famiglia, patriarcale.
magiurénk (ed. la crugia)….., Capo della casa. Il termine è di sapore latino (major) e di consonanza tedesca
patin letto Permette di fare riferimento al ted. patte (risvolto) oppure può essere riferito al Fr. patin (tavolato) col senso che ha nel gergo militaresco.
buscàu cesso Il tedesco busch significa " cespuglio " e ricorda il nostro dialettale buscòn, che, per l'ambulante, era il più naturale facile nascondiglio per la bisogna. Passò ad essere chiamato così anche il piccolo recesso della casa.
cubià dormire Siamo sulla scia del latino che ha il verbo cubare (dormire) e cubiculum (camera da letto).
el cubi posto da dormire Letto, fatto di fieno, in cascina
ghèna sghèusa fame Il franc, ghène accenna al vuoto (qui ci si riferisce a quello dello stomaco).
morchì mangiare Con lo stesso senso è parola corrente del gergo piemontese come quella di morsiè ossia morsicchiare del pane.
picinà mangiare Picinà nel senso di divorare in fretta e fino in fondo quello che i ha, si trova anche nel nostro gergo. Nello spagn picàr significa " beccare "
taréf bacato, tarlato, impuro agg. dall’ebraico tàrèph, sbranato dilaniato, poi cibo vietato, carne non macellata secondo il rito, o di animale infetto
traùna chiave Anche in senso metaforico, risoluzione, sesso
sbarlì morire Forse la parola fu mutuata dal dialetto piemontese e sembra che possa ricordare verbo italiano sbarcare sternità sulla sponda dell'eternità.
sbalugià rovesciare gli occhi Comunque il nostro gergo ha il termine sbalugià che significa " rovesciare gli occhi. Dal canto suo il ted. ha il termine sterben (mo-rire)
Questi richiami valgono anche per la parola seguente.
sbarliosa
sbartiosa morte Avvertimento
Interesse
lì lì per sbarlì agonizzante Avvertimento di morte, usato ancora oggi nel nuovo dialetto.
(*) Da aggiornare.
Mancono e saranno inseriti, quelli del contadino, del falegname, del carpentiere, del muratore, del insaccatore, del macellaio e di alcuni mestieri del 700 e ‘800 ecc..
bals setaccio Ha dato origine alla denominatone di balsè applicata all'ombrellaio, il quale vendeva e riparava anche i setacci. Etimologicamente Può riferirsi all'italiano sobbalzare balzellare come fa la farina quando viene setacciata
maga pentola In Valsusa un pentolino è la mària In ted. magd è la sguattera e magen significa " stomaco " al cui servizio è diretta la pentola.
smèssar coltello Ripetono bene il ted. messar (coltello).
smessarinn coltellino
rémul cucchiaio Grazioso il riferimento al remo, la lunga pala che viene azionata dal barcaiolo.
trént forchetta Oggi la forca per girare il fieno e/o il letame.
ràta
cuol Legna
carbone Rata per i vergantini è il rododendro, quindi ogni ramaglia per il focolare.
Da aggiornare
cafana cascina fienile L'italiano, capanna spiega la dicitura taruscina. Ma per l'ombrellaio la parola vuol precisare che gli interessa solo il fienile, dove potrà tuffarsi per i suoi riposi. Lo spagnolo. ha chapuzar (tuffare) ed il ted. kafìg (gabbia).
majulèra stalla
majoòla mucca Il dialetto vergantino offriva già al tarùsc il termine manzòla (giovenca).
légar
rigorda fieno
terzo fieno E' difficile orientarsi per una etimologia che soddisfi a meno di pensare all'ultima parola d'una frase che il lusciát doveva pronunciare spesso, quasi padroneggiandosi davanti al sacrificio di dover dormire entro una tana nel fieno: " Ghè be" da" sta lègar ". Un poco persuade anche il ted. legen (mettersi giù a dormire).
frisa paglia La paglia schiacciata può ben essere asso, migliata alla frisa (nastro). E' da ricordare anche l'it. frisare ed il fr. frise (fascia).
sgarbanta gallina Le abitudini della gallina, specie se essa gira in libertà, è quella di raspare continuamente in terra.
raspánta
kasér di sgarbant gallo
sgarbantin pulcino Talvolta su usava anche per i bambini
sgarbantusc pollaio
tabù o tabù cane Sembra un’abbreviazione d'una forma dialettale: Un tè ca buja "un cane che ab¬baia.
krúgia del tabu cuccia del cane Tabu sta per cane.
muss gatto E' la cosa più strana del tarusc, che il gatto i sia chiamato col nome della sua più ghiotta preda, il topo. Infatti, mus in lat. Significa proprio " topo " A buona giustificazione si può pensare al francese arcaico se musser (nascondersi), oppure a muser (oziare).
elusa capra Altra stranezza in campo zoologico. Verro in italiano è nome assegnato al porchetto; però l'it. arcaico dava a verro il significato generale di " maschio " applicabile anche al capretto.
verr capretto
burùcc agnello Agnellino, agnello.
burùcia pecora Pensiamo alla variazione avvenuta su bérruccia.
bèruccia da bèra beura Nel dialetto moderno beura è precisa¬mente la pecora.
beck caprone È comune a molti dialetti.
vasciagh maiale Oh, ci voleva anche la quarta stranezza! Eccola! Da váche (la vacca in francese) è venuto fuori il maiale. L'italiano. ci accosterebbe solo al “ vaccaro " che solitamente custodiva non solo vacche, ma anche maiali.
jébul cavallo
karren carretto Un richiamo ad una probabile etimologia ce lo offre il tedesco schecke (cavallo).
karren cum jébul carro e cavallo Oppure cavallo con carrozza.
árbigh asino
arbigon mulo
mursèll (pl.) pidocchi Il povero lusciát ben ne conosceva il " mor¬so ".
sautaréj (pl.) pulci Inafferrabili per la loro abilità nel saltel¬lare. Ricordare i dialetti sautà e sautaréll.
culubijn caffè Nel dialetto locale culòbia è l'insieme dei co¬laticci di cucina destinata al truogolo del maiale.
culubijn cum milk
o lacch caffè e latte Potrebbe derivare da Colombo scopritore delle Americhe. Il lusciat si esprime in senso spre¬giativo verso il caffè, certo riservando le sue preferenze al vino. Nel patois francese si¬gnifica cosa liquida che cola. (Coualant come liquida)
élban uovo Sembra di provenienza tedesca, attraverso a qualche forma dialettale: infatti, il ted. hellen significa "guarire ": ed heizen " scal¬dare " E poi hiezen ball. non potrebbe avvicinarsi al senso di " palla scaldata "?, che sarebbe proprio l'uovo scaldato. I vecchi lusciát mi ricordano la mania dei garzoni di rubare uova, nei pollai e sui fienili, e, si sa il rubare in ted. si dice anche heisben. Accetti in ogni modo chi vuole.
élban cum lorgnu zabaione Frullata d'uovo con vino
gèrb pane, Facile il raffronto con il francese gèrbe (covone di grano).
gèrb cum milk pane e latte
milk latte E' pure termine inglese.
milkessa o milkana quagliata Il nome stesso dice che si tratta d'un succedaneo
del latte.
molina o mulina farina Si pensa naturalmente al mulinare della mola nel metodo antico dei mugnai.
turnèla polenta Ouest'altro grazioso termine ci fa rivedere le massaie d'un tempo che ogni giorno giravano, ossia tornellavano col mestolo di legno, la profumatissima polenta che andava. -cocendo nell'apposito paiolo di rame. E’ bene rammentare il Fr. tourner (girare).
mosa minestra Oltre che minestra doveva Indicare qualunque cosa preparata per il pranzo o la cena, come in linguaggio militaresco si dice " supa " o " rancio " la distribuzione del giorno, sia brodo che minestra, ecc. La parola è di conio taruscino, però con reminiscenza nordica; infatti il ted. mus significa purea o marmellata.
jénk riso
pastòn risotto Chiara la significazione di riso asciutto che (passi il paragone), un poco si assomiglia al pastone delle galline.
sapeta michetta Pensiamo al piccolo, lusciát in erba che, come, già in famiglia, sminuzza la sua michetta e coi pezzetti tra pollice ed indice, zappetta o zaffetta anche lui, a gara col suo padrone, nel tegamino, dove è stato cucinato qualcosa per " tramlúra " (pietanza).
tramlúra pietanza Ci darci il significato di spezzatino, di " carne tramlàa ", ossia spezzettata.
varna o varnera carne
in genere O c'è stato qui un ricamo sul termine verro (porchetto) con una flessione in varnera e, oppure c'è qualche reminiscenza dialettale tedesca.
varna cum cartòful carne con patate Stufato con patate
tràmpul salame Nelle zone agricole i maiali venivano allevati in tutte le famiglie e macellati per il loro uso e consumo. I salami freschi per un poco di tempo venivano appesi a delle stanghe di legno, onde, se toccati, dondolavano: di qui il senso di “trampolar”, ossia " barcollare "vasciágh - maiale o carne di maiale. Se non fu desunto da un nomignolo interessante i Vacciaghesi, non saprei dove aggrapparmi per una etimologia
cartòful pl. patate Dal tedesco kartoffeln
buréj o burlagh pl. fagioli Vi è una varietà di fagioli dialettalmente noti proprio sotto il nome di burlot o barlágh. La radice richiama alla proprietà del burlà (rotolare).
stafél formaggio E' termine del dialetto biellese e valsesiano per indicare un formaggio scadente, tipo il " vaciarin " Pensare al ted. steifan (= indurire).
nusucc olio di noce (od olio in genere)C'è nel dialetto vergantino la stessa parola per indicare il residuato, pressato in pannelli, dopo compiuta la pressione della massa dei gherigli delle noci, sotto il torchio
vuncin burro o qualunque condimento grasso, oppure sporchino
tàfiòla castagna .
garbia uva .
risìva insalata Mi sembra logico pensare la rizziva, dall'it." indivia " e " rizza “ delle insalate
gravisna sigaro E’ detto gravisòn il torsolo del granoturco: chiara è la sua rassomiglianza coi primitivi sigari del Piemonte. Si può pensare anche ad un surrogato del tabacco, che per i poveri lusciát poteva essere trovato nei cosiddetti barba del granoturco.
arcunimenta vestito Il tarùsc suppone della fantasia, quale ha messo qui, ad esempio, per modulare con una finale di stile spagnolesco, l'it. arca (cosa che racchiude o che archivia).
arcunimenta cum lusnéj abito con buchi Si usa ancora oggi per gli abiti del prete.
slandrina camicia L'it. palandrana (vestaglia), se al diminu¬tivo, offre una buona indicazione, mentre il dia. slandra ha significato spregiativo per la donna.
cravatisna cravatta
macareu e macarrulinn fazzoletto
sciarbetul pl. scarpe La parola non è ostica per l'Alta Italia, per¬ché essa stilizza con molti dialetti, presso i quali c'è (plur.)
sciavàtul e scavàtt borsellino o portafoglio
stranscètt (pl.) calze
batagìn orologio Allora d'orologi v'era solo quello da tasca assicurato con una catenella, per cui se sfug¬giva dalla tasca penzolava come un piccolo
bátàcch batacchio quello della campana, ma anche tontolone.
la brìa catena la catena dell'orologio
batènt ora Pochissimi possedevano un orologio: perciò a regolare le ore era il bastone della campana più grossa. Es. " Sgrifia batént " ore 5).
rabatìn rivoltella Qualcuno forse teneva seco anche questo capo di corredo.
rabatin bimbo Rabatin in Tarùsc è anche un bimbo, piccolo di statura, ma vivace: arzillo e sicuro di sé, era l'ombrellaio che era munito, di quell'oggetto (fuori legge), ma è pure logico agganciarsi al franc. rabattre …. spianare o umiliare... un assalitore).
rabatìn Il malessere Le conseguenze di una forte bevuta, del giorno dopo.
pata e patin L’apertura dei pantaloni
Uno degli argomenti molto difficili degli ultimi due secoli.
sciuchèta testa Forse c'è sempre stato nel linguaggio uma¬no un accostamento tra testa e zucca.
chèja barba Sembra di fabbrica lusciatica,
mòcul naso Ci tiene in argomento l'it. muco nasale, op¬pure il comunissimo moccolo, ossia un piccolo rimasuglio. d'una candela gocciolante. Nel nostro gergo si dice, " candela " il muco colante dai nasi... infantili
smorfia bocca
grinta
ghigna faccia Smorfiosa - si trova anche nel dial. piemontese: è bene pure ricordare il franc. grimace (smorfia).
svéntul pl.. orecchie
Lusnéj pl occhi Il dialetto lús (luce) ha imposto il nome proprio agli organi della vista, ed ha messo in uso il verbo lusnà (guardare).
gárgánta gola C'è proprio la stessa parola nello spagnolo.
lézar capelli Della testa - E' evidente la sua derivazione da un termine francese, un po' antiquato come senso, un po’ antiquato come senso, lézardes pl., che significa peli.
lézardes pl peli Che significano i peli del corpo.
grapèll al sing, grapèla aggrapparsi grappare Anche i pupi sanno mostrare per quale servizio il Creatore ci ha dato le mani.
payarinn seni Bizzarri al il termine, di gergo, ricorda le rotonde pajarine, cataste di paglia, che, lar¬ghe alla base, si restringono verso l'alto: anche il palo che fuoriesce in cima completa quella forma che vorrebbe costituire una certa rassomiglianza con i sopraccennati ele¬menti fisici della donna, i capezzoli.
scatell pl ormoni Dal tedesco schachtel, scatola. Testicoli.
bèf natiche- sedere Si è andati assai lontano, in Inghilterra, per trovare un termine che velasse l'accenno un po' volgare della parte più carnosa del corpo umano Beef in inglese significa appunto. " carne ".
salvarégia gobba Nel nostro dialetto régia vorrebbe essere il cerchio di ferro che tiene insieme le doghe della botte, la quale fa gobba esterna nel mezzo. Sembra così, di poter rassomigliare la schiena d'una persona gobba alla botte e sembra pure che sia una regia, che salvi la gobba da uno sfasciamento
sciarabòch cieco Non vede un buco
slusciá o sluscinà urinare Da pioggia.
lirba o vaina sterco Di animali
tarir marchio Marca di fabbrica: Made in Taruscionia Però, senza saperlo ci si è trovati in linea col verbo francese tarir (venir meno, illanguidire).
tarèf ferita o malore
caudignenza gran caldo Afoso ed umido, gran caldo estivo.
brédul freddo e freddoloso E' una variazione di frédul, parola dialettale, forse del Piemonte. In Valsesia si dice bréviu (infreddolito).
intrucà infettato Uomo rimasto intrugliato, infetto di malattia venerea.
in fund del pian (agg.) fiacco, sfinito Malinconico, di ma¬lumore, depresso
bià bùsc senza forze Anche nato stanco.
biosma
febbre o malessere Senza precisare da che provenisse: influenza bronchiale, polmonite, reumatismo, renella, ecc.
sbrugnàs farsi male
patì la china patire la fame
lòfia Rabbia brutta Da non poterla vedere.
balènk (agg.) mattoide Una persona inaffidabile
stanscià magér essere allegri star bene
bàta l'armòna fare l'accattone Barbone, senza casa
luzòn poltrone Nessuna voglia di lavorare, mantenuto.
ramelàa su la scluchéta legnata in testa
smèssaràa coltellata
tafón pugno schiaffo Schiaffo che fa rumore.
sciarbàtulàa pedata Nel sedere
squita paura Da squittire, che fa anche stridere i denti.
Kasér del rundél Dio Il Padrone del mondo
Gran Kasér di t'zurla Il Papa Il capo della chiesa
Cardinalisna Cardinale
Kasér di t'zurla Vescovo
t'zurla
t’zurlon prete parroco
un grande prete Questo strano termine, quasi certamente fu assunto in zona degli Stati Pontifici (compresa la Romagna), dove al principio del secolo scorso era Vicario (di Stato) il Cardinale Zurla, il cui nome certo correva sulla becca dì tutti gli amministrati, forse in senso irrispettoso.
kasér padrone Si faceva leva sul ted. Kaiser (imperatore).
casàca gran capo
casaachìtt sudditi d'un re
kasér di kasér re
kasér di majurenk prefetto
maijurénk di stringon autorità Maresciallo dei carabinieri, Massima autorità sul territorio.
strigòn o ligùscla carabiniere
propost guardia di finanza O raccoglitore delle imposte, un tempo la gabella.
aba capo Dal piemontese.
kasér èd la bòla sindaco Massima autorità eletta dal popolo.
bulon città
buia o bòla paese
bòla di t’zurla Roma Città del papa
bòla del Tor Torino Capoluogo di regione
Carscianese Cittadini milanese
Càrsciàn Milano Non si comprende l’utilizzo per una grande citta il nome di una frazione di Stresa.
Màrgùzzeu zona del
Mottarone Mergozzolo è termine geograficamente ormai caduto dall'uso corrente; significava la zona volta a mezzogiorno che abbraccia tutte e pendici del Mottarone, dalle varie cime fino alle rive del Lago Maggiore, da Feriolo fino a Meina. L'antico nome potrebbe essere stato: Mergozzolo: e questo, a sua volta, da un più chiaro Meridio zolum col significato di "suolo esposto a mezzogiorno”.
lavagion Lago Maggiore In altri luoghi d’Italia il termine è entrato in gergo per significare un fiume, che nelle piene (alluvioni) certo “lava bene” le proprie sponde. Più raramente è usato per acque ferme o di lentissimo corso come quelle che lentamente scorrono nel lago, battezzato in linguaggio taruscino proprio con quel termine.
vergaànt vergante Ha una portata di estensione inferiore al Mergozzolo. Derivò dai participi latini vergens, vergans o virgens. Proponendo per primo ,vergens ossia che si svolge, esprime la sua reale estensione di declivi vertenti a mezzogiorno ossia esposti al sole d’ogni stagione.
ul balabiutt ballare nudo dice "fà mìa ül bälabiütt" non ballare nudo, non fare il matto.
Da inserire il commento. Va abbinato con il resto dei lavori allora conosciuti.
artùsc mestiere Dice una variazione di arte e artigiano.
biijèta soldato E' preso di pianta dal dialetto piemontese.
barusciàt berrettaio,
cappellaio.
blachèja barbiere Poichè blà vuol dire « fare» e cheia vuol dire «barba»resta ben definita l'opera del barbiere
biasìna sarto
brusapignàt cuoco Il mestiere, con una sola parola, è magnificamente inquadrato.
blàsciarbétul ciabattino “blá” (fare) e sciarbótul (scarpe).
mulità Arrotino
bùsé oste
Il nome è legato al locale dove si esercita il mestiere. Infatti, l'osteria è la buséra, che trae la radice dal franc. bussard (barile da liquori). A meno che si voglia pensare al dial. bús o búsa, ossia « taverna ».
blàscjubls Maniscalco Chi ferra i cavalli
blàscfer Fabbro Chi tratta il ferro
el ruger Stagnaro Riparava le pentole
garbúsa
garbusàt garbùse Cestaio, cestaio di vimini Da radice it. gerba, ossia « giunco», la materia prima del cestaio, detta meglio vimini o salici.
sbrùgna, sajócul piccapietre Da sbriigná (spaccare) e sajócul (sassi).
kasér dí majóì pastore, vaccaro Dal tedesco
lìgnamè falegname a.v.
pilusàt pescatore Da pilùsa. (pesca) e, questo dal verbo franc. pillier, che significa «gettarsi addosso a qualche cosa, fare a chi può prenderne di pìù: questo è il mestiere del pescare.
denciòn o sbagin avvocato Uno che mangia,
sbrugnabácán medico Medico
sbrugnaniaffl macellaio
scárabucìn scrivano Da scarabocchiare su carta e registri.
murselàt pidocchioso (accattone) Derivazione da mursèll (pidocchi).
munell ladro Significato dell'it. monello è stato perciò ben ridimensionato e ricaricato dal lusciat.
lignamèe falegname Uni che lavora il legno
tulee lattoniere Anche idraulico
Il centro di tutto il discorso, genti migranti per secoli si sono inventati i lavoro per sopravvivere al completo disinteresse delle stato centrale, in questo caso delle case regnati di turno.
L'apprendista, un ragazzino di sette, otto anni, il giorno di Capodanno, sulla piazza di Carpugnino, veniva affidato dai genitori agli artigiani ambulanti, sperando che avrebbe imparato un mestiere. "Al prumm dal lungon a Carpignin, a truà l' Casér senza an bergnin". "Il primo dell'anno a Carpugnino, a cercar padrone, senza un soldino" recita l'epigrafe posta nella piazza di Carpugnino. Molti fecero fortuna e molti vissero una vita fatta separazione dalla famiglia, di notte nei fienili, di freddo e fame. Il padrone provvedeva in tutto all'apprendista che al grido di "Ombrele!.. Ombrelé!" imparava a riparare e a costruire un ombrello. Al ritorno a casa, a Natale, come compenso, se il ragazzo era stato volenteroso e si era dimostrato abile, un paio di scarpe e un ombrello di seta Gloria e poi di nuovo in giro.
Umbrelé
od umbrilàt da ombrello e ombrello dal lat. umbracuIum, cosa architettata per far ombra: non aveva riferimento alla pioggia); balsé, o da « bals », che è il setaccio (articolo, pure curato dall'ombrellaio) oppure da barselé (l'uomo dalla barsella), abbreviato in balsè.
umbrelé ombrellaio così nel Milanese e nel Veneto.
umbrilàt o balsè “ così nell’alto Vergante
lusciàt così nel Tarùsc o gergo della categoria
bacàn manovale lavoratore di paese
bacagn Mano d‘opera,
contadini Tutti i forestieri, non brisold, cioè non ricchi, per il lusciat erano da considerare bacagn, specialmente i contadini.
sciuchitòn tedesco (testone) Quanto a testa (sciuchéta) il tedesco era ben duro, quindi sciuchitòn.
braghìna svizzero
La foggia delle brache, dava ragione a tale nomignolo.
brùchèja francese Se cheja è la barba, i francesi sono i brutti barbosi.
Puriàn
taròn meridionale napoletano, o tutti quelli che abitano dal Po in giù. Penso che la vera denominazione, intenzionalmente voleva essere quella di puritani, che aveva il senso di « eretici », come dire « non cristiani ».
carscianes milanese
sbagìn ebreo La parola ha significato ben ironico: infatti, sbagià nel nostro dialetto vuol dire « sbadigliare »... per la fame. Eterni sbadiglioni, bramosi di denaro, gli ebrei... e tutti gli avari
sciuvéra gerla Barsella ( borsona, portata dietro le spalle) dei primi tempi
bersèla o crica barsella La qualifica di “cricca” è dovuta al barcollare continuo del carico sulle spalle dell’ombrellaio in marcia. E « sciuvéra » fu il gerlo usato dai primi ombrellai per portarsi intorno il loro carico d'ombrelli e arnesi. Era simile a quella gerla usata dai garzoni dei fornai, per portare il pane a domicilio.
òn ornbrello rotto Lo spagn. ha l'agg. rajà (spaccato) ed il franc. il verbo rallier (motteggiare). Qui sarebbe l'ombrello rotto che attira i motteggi.
balmèla negozio
Nei dialetti delle valli alpine balna è un incavo sotto la roccia sporgente, quasi un riparo a tetto. L'aver posto il piede fermo in un negozio proprio (balmèla), segnava per il lusciat un principio di fortuna
balósegna giornata Ha senso piuttosto euforico: Ho fatto una buona giornata; ho lavorato bene.
chèifàn accorto, capace Era una delle qualità connesse col mestiere Il tarùsc ha attinto dal ted. cheifen il significato di « buon strillone ». La qualità principale dell'ombrellaio che batteva i mercati era infatti quella di saper « incantare » la sua merce, dapprima strillando forte
tirchis furbo (in senso di tirchio) Il termine, all'apparenza, sembrerebbe friulano
Da triminare.
sápitt (pl.) i ferri del mestiere Oltre alla barsèla il nostro lusciat aveva a tracolla la borsa di sapitt, che consistevano nei ferri del mestiere.
Iusúra (sing.) forbici
martilinànza martelletto
sbùsignànza punteruolo
ràmin filo di ferro Un tempo veniva utilizzato il rame
tulina latta
tulat lattoniere
flignànza refè refè di seta o di cotone
tacugnànza pezze pezze (avvolte a rotolo)
tàcòn pezza ritagliata a cerchio di circa 15 cm. di diametro, forata al centro e poi infilata in cima al bastone cucita e trattenuta da la
caplèta cappelletto cappelletto metallico (da fissare con un chiodino)
Quando si doveva fare tale riparazione al vecchio ombrello si diceva che bisognava,
fágh el bàrùsc ossia metterci quel cappellino
ragozz bacchette dì ferro
ramél bastone di legno dell'ombrello
ruchèt manopola
apréntis molla a scatto Fu introdotto un po' tardi questo congegno di pronta apertura: per la chiusura ve ne era un altro detto..
Vélox scatto di gancio molletta
Rítúse ombrello di seta
lùsela in fùnd del pian ombrello molto rotto A toccato il fondo
lùseia sbrugnàa ombrello con strappi
lùscia cu
lusnéj ombrello con buchi
cusisnà ricucire, rattappare
shidulà lavare
grià aggiustare in genere
la bálzána fine stagione Questa era cominciata magari assai bene,era proseguita con la speranza d'un buon incalmòn (guadagno), con una certa abbondanza.
bazéfla abbondanza Si può ricordare l'it. « a bizzeffe ».
in fúnd del pian fallimento
Questo poteva succedere per una malattia, ovvero per un tradimento o per un furto, o per contestazioni ingiuste. Ne nasceva facilmente una lite che magari faceva entrare in campo i denciógn (gli avvocati).
maréta lite (guerra) Al dissesto, alle volte, contribuiva l'andamento della stagione, secca in doppio senso, con siccità nell'atmosfera e nelle... tasche.
caudignenza ossia del gran caldo... La colpa non era tutta del sole perchè nei mesi della... si poteva rifarsi con un altro articolo, succedaneo
lúscìn parasole
Oppure si poteva fare qualcosa anche in un'altra partita, per esempio quella del....
crispin ventaglio o del
bals setaccio
montris sole Il bel tempo, caso mai, favoriva i lavori ed i raccolti lassù sui pendii del Vergante. Montris potrebbe essere una delle parole sfornate dalla zecca taruscina, non avendo essa riscontro con alcuna etimologia estranea alla parlata dei lusciat.
lusènta luna Risplendente, aiutava i viandanti.
luséntin (pl.) le stelle
sciavàt portafoglío Siccome era fatto di cuoio, non gli disdiceva il brutto nome di ciabatta. Restava sempre la cassaforte del lusciat.
ràta roba(merce) In magazzino
lràtùsc
seta Se non era di buona qualità la seta s'arricciava e diventava rituscìàa.
ruvina bícicletta Ha modificato il trasporto, non più a piedi.
ruìánt carretto Il trasporto tradizionale nelle campagne
rulanta auto Sconvolge la vita delle campagne
per sopravvivere ai balzelli, tasse ed ai ricatti.
luscì
piangere E' il primo verbo che il ragazzo, lasciando la casa e la mamma ha imparato a coniugare. Da la pioggia (lùscia) è facile il passaggio alla pioggia di... lacrime.
t'zùfàj prendere le botte Anche questa brutta esperienza ha accompagnato per anni ed anni l'apprendistato del duro mestiere. Può aver preso il senso da azzuffare. I nostri dialetti dicono suonarle. L'etimologia ci riporta alla lingua ted. ed avverbi fassen e zùfasser (prendere).
t'zùfà prendere botte
varlér o farlér Busse,
Incalmì capire o incassare La derivazione non la conosce neppure un vero lusciat. Ma per il senso di incassare è chiara la provenienza da (in) colmare la borsa.
incalmòn guadagno Incasso
caramíà o
caramelà discutere o
cantare Se vogliamo incomodare il greco, troviamo melos canto, oppure pescare nello spagn. caranúllo zuffolo. Nel nostro dialetto c'è caragnà, piagnucolare con cantilena.
ficà da lovigh marinare da andare, scappare, il senso di scappare è quello che piaceva ai piccoli garzoni, per andare a giocare, con i nuovi amici, oppure lo scappare via da un padrone duro e cattivo.
spafinà giocare Il giovane si divertiva a suo modo ed il lusciat, arrivato alla sua forma, volentieri Spatinava a buribim, a bocce. L'etimologia ci assicura una parentela col verbo ted. spassen, burlarsi, divertirsi.
carucìn fante otto
manija donna nel gioco a carte, pilòzz
màgutt manovale uno che non sarà mai operaio.
kasér re Padrone assoluto
grià fregare Il doppio senso è evidente, fregare per lucidare gli oggetti, è fregare per imbrogliare i clienti. L'operazione del lucidare produce il verso dei grilli (grìj): quella ai danni dei clienti è espressa bene dal verbo franc. griller (arrostire, ai ferri) o fors'anche dal sost. ted. griff (colpo mancino).
cotizà defraudare Da cotizár (spagn.), come dire defraudare di una certa quota
ruseà o rùscà lavorare forte la parola è comune nel gergo piemontese, ma fa supporre una provenienza da area tedesca. Infatti ruschen significa «schiena», la più impegnata nei lavori faticosi e prolungati.
rùsch lavoro rude
ruscadór gran lavoratore
carpì rubare Il termine è dialettale ed italiano insieme: carpire.
schijà pagare siamo in dialogo coi veneti, per i quali sappiamo cosa siano gli schéj.
el metona làsa stanscià io lascio andare l'affare Perdere un provento
smena o smina perderci E' un leziosismo lombardo
sgurà vendere Dar via, riuscire comunque a vendere a dispetto del mercato
bulàIa vendere vendere un primo capo Il termine è nel dialetto nostrano.
tramlà o tramià affettate Una certa parentela deve esserci stata con l'it, tramischIare e il franc. antremèler, tutti con senso di fare una mescolanza dopo aver tagliato e sminuzzato. Vale per la cucina soprattutto, dove tramlura vuol dire «pietanza». In gergo taruscino aveva il senso di ritagliare pezzetti di stoffa o di latta.
stanscià stare Con leggera variazione di senso sull'it. stanza e stanziato (dimora stabile).
stanscià da
lovigh Trovarsi lontano Per almeno un anno
ravaità Girare, per il mestiere Su sfondo dialettale piemontese, la parola era usata come definizione del mestiere stesso dell'ambulante: « el lusciàt cà ravàita ». La radice rav suppone moto in discesa e quindi crescente
luscà Vedere Come fu detto degli occhi, anche questo verbo ha la sua radice etimologica nel latino lux.
blá fare Fabbricare
disbalà dire Annunciare
disbalua chiacchierata Va bene qui ricordare(sballare), ossia dare il Fr. deballer ad una notizia. Ma la radice è delle lingue neolatine: ricordare il discorso.
tapà
parlare con vigore L'etimo l'abbiamo nel francese tapage (schiamazzo : l'estensione di significato è da attribuire ai nostri taruscianti.
tapà rIbas non parlare (tacere)
tarunà o strilà parlar forte Sembra di sentire qualche eco del tuonare
Infatti il dialettale trunà, passa per l’inserimento di una a “tarunà”
traunà chiudere si può far richiamo all'it. intravare, infatti molte porte un tempo si chiudevano dal di dentro con un travicello trasversale. Un supposto travunà, perdendo la v, è diventato un traunà
sluscià piovere o orinare Se lùscia è la pioggia, significa piovere. Non ha il merito pieno dell'inventiva il lusciat vergantino perchè il termine era già sulle bocche di tutti nelle valli Piemontesi. In Alta Valsesia slórcia è l'acqua. Facile anche il Passaggio alla bisogna del mingere.
scabià bere Nel gergo piemontese vino si dice anche scàbbiu: da esso si è dedotto il verbo scabià
(bere a sazietà). Come radice può essere
ricordato il ted. schank (mescita).
fumisnà fumare a pipa
gravisnà fumare sigari
bàgul fondo di pipa
Flcà o tuvajà andarsene Per il primo si è attinto al gergo piemontese. Anche per il secondo bisogna ammettere una scelta ben facile fatta dai primi lusciat nelle parlate dell'Alta Italia che avevano già il verbo tuvajà (andarsene in fretta).
firmisina firma
firmísnà firmare (un contratto)
s'cíunà appioppare E' usato solo nel senso di assestare ad alcuno un pugno, una sberla, ecc. Con fonetíca varia la parola era già nel gergo di varie zone lombardo-piemontesi. Nell'espressione par dí sentire lo schiocco della sberla.
guzà piacere (gustare) Per bocca degli ombrellai la parola era passata nel gergo massinese. Ma dove il tarùsc l’aveva colta?... Certo entro l'arco alpino, perchè l'etimo di essa è nell'it. gusto. Vi collima anche l'etimo ted. gut. (bene, buone).
fa créna far credito C'è una reminiscenza nel francese crépin (credito).
stramà fare un prestito Anche preparare il giaciglio per le bestie
Stramà bùse negare un prestito Sembra un linguaggio da pastori e da vaccari: mettere stramatico per il letto delle bestie.
stancià in fund del pian malridotto Capitava anche questa evenìenza, a qualcuno dei più sfortunati,... di trovarsi a terra, In fondo al piano, per gli affari o per la salute.
farlér busse Quelle toccavano al povero gnufél e proprio dalle mani o dalle scarpe del Kasér o Casèr (padrone). A consolazione dei poverini però arrivava loro magari all'insaputa del padrone, una qualche...
grapèla Buonamano
mancia Mancia. Infatti grapèla è la mano, detta pure sgrinfia.
da terminare.
TEMPO STAGIONI
el Prumm del Lungós il Primo dell'anno O il primo di un
lungo anno, freddo,
lavoro Primavera
Iungós anno Estate
tréntin mese Autunno
mezzin quindicina Inverno lungo anno, freddo, lavoro
Lusneu alba
Lususa mattina NUMERI Da terminare. (*)
Inbruna sera (e notte)
MISURE
Tirantòn litro o boccale spuntòn uno
mina tirantòn mezzo litro silvester due
scuvròla o butrisa bottiglia trent tre
mina butrisa mezza bottiglia pala quattro
scuvreu bicchiere sgrifia cinque
scivrulin bicchierino du trent sei
MONETA pala e trent o furchitòn sette
burél soldo, denaro do pall (o lustra) otto
pisèla lira pala e sgrifia nove
russin marengo mina russìn dieci
mina russìn mezzo marengo ½ marengo10 lire
sgrifia éd russìtt 100 lire
sciavatòn scudo
disbalura dozzina
mina disbalura mezza dozzina
Taruscin
taruscina Uomo
donna Abitante dell’alto vergante
patafijetà hosteria Osteria,
patafìjéta Insegna dell'osteria dall'it. pataffio e dal dialettale pataffia
Buseron albergo Buseron busure, locanda con cucina
lorgna vino Anche bevanda alcolica
sbuja mangiare
murchì rosicchiare qualcosa da mangiare
el sbuj(atto) il mangiare
scabià bere Senza accento è malattia
patinà giocare
schijà pagare
ripusà i s'ciòzz riposare le gambe allungarsi
el cubi l'atto del dormire
cubià dormire Questi i principali motivi per cui i nostri lusciat e/o taruscin si dirigevano con piacere verso le patafijetà notissime ed invitanti bettole, lungo le poche agevoli strade... d'un camminare senza fine.
búsé e busina oste e ostessa Loro amici gli osti e loro delizia il buon vino
buséra hosteria Infatti, un tempo, quei locali di richiamo per i devoti di Bacco, erano dei veri bar o tavernette.
búséròn
piola albergo
taverna Più delle volte era un’osteria con camere.
Normalmente un a dispensa di pane e vino.
gèrb e stafél pane e formaggio Questo doveva essere il classico spuntino, stuzzicante ed esigente delle buone associazioni liquide.
piulàt l'ubbriacone
piulàt o in ciarina sbornia Questi termini antipaticamente odoranti di vino mal digerito, ricordano precisamente la piola, spinetta, che a volontà di chi la toglie, lascia spillare dalla botte il tesoro contenuto. Chi fa lavorare troppo la piola è di conseguenza un piolàt. Il traditore non era il busé che portava in tavola quanto comandato, ma l'elemento colato prima dalla vite e poi... nelle gole
lòrgnu vino rosso Così si esprime il gergo biellese, come altri dialetti piemontesi, per indicare il vino, mentre in Valsusa indica un recipiente dì terra, tipo olla, per mettervi il vino od altri liquidi. Il termine lorgnu apparteneva anche alla classe degli stagnini.
ràcàgna grappa
ràcagnin grappino Anche la prima bevanda del giorno dopo una grande bevuta
karamlà magér cantare bene e forte
pilòzz carte da gioco Una partita a scopa, a brìscola od a tarocchi poteva consumare lentamente una parte di serata, inpreparazione al sonno.
ghirighèla gioco della «morra» Deve avere attinto a qualche gergo dialettale da un termine significante «groviglio od intreccio disordinato » tale è in risultanza tale strana forma di gioco.
Di quando in quando bisognava pure che anche il nostro lusciat concedesse una parte del suo tempo ai diritti dell'affetto, dialogando a distanza con i suoi cari. Ed allora prendeva in mano finalmente anche la « piuma » e, chino sopra un foglio bianco, si ingegnava a scrivere qualche cosa, dì sue notizie
pilozza carta (da lettera) sulla quale le parole scendevano a stento e sgrammaticate, a frasi disordinate, a servizio d'un pensiero che veniva a singhiozzi. Perchè la carta aveva ricevuto come riconoscimento il nome di pilozza?... Il processo di fabbricazione comprendeva il macero entro grandi pile, nelle quali la materia prima, legna e stracci veniva pestata: di qui anche il verbo franc. pilIer, pestare. D'altronde, i massinesi ben sapevano che presso le cartiere di Villa Lesa e di Meina, dalle macchine uscivano poi le lunghe fogliate di bella carta.
scàràbucín segretarío questo benevolo aiutante se lo dovevano prendere a servizio gratuito i nostri bravi antenati intelligenti sì, ma analfabeti o tornati quasi tali
minìn bacio un bacio ai gnuféj ed alle gnufèle.. e poi vi sottoponevano la loro sghembata... firmisina firma.
Ma in la busèra poteva succedere che il vino facesse montare i fumi alla testa, la schiuchéta e che, di parola in parola, si arrivasse ad una lite...
maréta lite Ed allora si passava agli scambi di parole poco gentili od anche molto cattive (cheifán). E poteva arrivare ad inquadrarsi alla porta un'ombra nera e corporuta, ossia quella del
ligùscia carabiniere
E se la comparsa non fosse stata sufficiente, i due altercanti, barcollando sulle gambe malferme, dovevano andare a dormire sul tavolazzo, in...
catùfia prigione Ed al paese poi, ci pensavano i compatrioti a far sapere a tutti che il tale era diventato un...
Catufiàt(in catufia) ossia ospite della prigione ossia ospite della prigione Accennando a questa part'ta di « busèra » e « catùfa » non ho voluto né disonorare la classe né il paese, ho voluto solo, a modo mio, far completo il dizionario del tarusc.
Termini pregiativi e spregiativi.
taruscino
taruscina ag Persona dell’alto
vergante L'aggettivo taruscino è applicato sia alle cose che alle persone (anche in senso morale).
tamégn, tamégna M
f sano, forte
Mager e magèra ag bello, buono Sta bene a capolista, perchè è usatissimo e dice un po' tutto, per qualità, bontà, grandezza, utilità, ecc. Ad esempio: bola magéra sarebbe una città “grande e bella”. Butrisa magéra, è senz'altro una “ buona bottiglia “. E' presumibile una derivazione dal tedesco o meglio da una corruzione dialettale ted., avente per radice max (il massimo). L'aggettivo taruscino è applicato sia alle cose che alle persone (anche in senso morale).
mager avv bene E' anche avverbio e perciò stanscià magir vuol dire - stare bene -.
lústár nuovo Era già di possesso dei nostri dialetti vergantini nel senso di “lucente “; fu assunto dal tarusc nel senso di « nuovo » Ad es. lùscia lùstra (ombrello nuovo). Più comunemente anche per questo significato si faceva ricorso a magér.
virlòn robusto
grossolano Per il senso di - alto e grasso - possiamo riferirci allo spagn. birlo (birillo) ed al dialettale lomb. pirlòn (alto).
chèifàn maligno(in gamba)
furbo Certo la parola è stata confezionata su materia prima tedesca. Di là dalle Alpi si usano parole simili, ossia kaufen (mercanteggiare), kenen (conoscere... il mestiere) e cheifen (strillare). Di lì le qualità tutte del buon lusciàt , accorto, furbo, buon strillone nelle fiere
brisold ag ricco, danaroso Siamo ancora in linea coi tedeschi quanto alle due radicali, brief, che accenna alla “ carta “ e sold che la fa diventare, carta monetata.
barzòla spr diavolo E passando agli spregiativi, cominciamo dal nome stesso del “ diavolo “, applicato sia all'uomo maligno, carico di tutte le cattiverie, come anche ad un “ povero diavolo “.
tamàcul
o tartìful spr stupido, tonto,
facilone Il primo termine avrebbe una consonanza più tedesca che nostrana, mentre il secondo si accosta ai dialetti piemontesi che chiamano tartiful le patate, e perciò va a collimare con la espressione dialettale: stùpId cumè na tartifula o cumè na bija
mínàja capace a metà
andicappato Minà appartiene al tarùsc in servizio di prefisso ad altra parola col significato di Meno, ovvero a metà. Il termine è stato mendicato nel; mantovano-ferrarese. La finale richiederebbe una sillaba lasciata cadere per brevità d'espressione. Crederei dì ricostruire così: mina-bija = colui che fa per metà.
biròn zoticone
maldestro L'it. birro = lo sbirro delle imposte, non rende bene come il sostantivo spagn. birria (antipatia).
paìnàcc trasandato (nel vestito), La più verosimile delle parentele di questo aggettivo sembra sia quella che intercorre tra painàcc e pagliàsc, pagliaccio, trattandosi d'una qualifica del modo di vestire. Comunque sembra un termine a sfondo veneto.
luzòn fannullone
perdi tempo Dall'ít. lusco ovvero losco forse ne è venuto l'accrescitivo dialettale luzòn. Sembra pure ovvio considerarlo un'abbreviazione di lazaròn.
lòfi brutto,cattivo Fu già prima in dotazione del dialetto biellese e d'altri dialetti del Piemonte. Il luscíat diceva: El misté del neust tona l'è propi un místé lofi.
aguzin usuraio Strozzino ,
ül bälabiütt Ballare nudo Dice "fà mìa ül bälabiütt" non ballare nudo, gli antichi guerrieri usavano ballare nudi
kasér dí manij donnaiolo Facile a comprendersi l'espressione velativa del gergo taruscico, se si tiene presente il significato di kasér (padrone), e di manij (donne). Ma il tarusc tiene in serbo anche appellativi per le donne... di cattiva nomea: mèula, ranza, vasciága, tacrìna, ecc.
Da terminare.
dalovich lontano Guardare lontano, oppure venire da lontano
sfi qui Sfi,sfo,sfa – qui, quo, qua,
vol sì dial. ted. jawol che significa: Sì, verissimo!
bùsc niente
ribas no Per nulla.
magér bene
mina metà Come sopra
sténcia tanto
Da terminare
Congiunzioni
ed articoli A legare fra loro i termini e le frasi, a specificare il tempo dei verbi, ecc., il tarusc si serviva dei mezzi e dei modi offerti dai vari dialetti, specialmente da quello imparato, dalla mamma, al paese nativo. E così per i vergantini ci fu subito una base comune, una piattaforma di facile intesa e di avvio al dialogo.
Da terminare.
Congiunzione dei verbi. Alcuni esempi.
Poichè il soggetto è quasi sempre al
singolare il tarùsc si dispensa dalle variazioni
per le sei diverse persone
Es El me toná él fica an la bola del Tor, á Turin
El veust tona él fica an la bola el Tor , à Turin
Quando però è costretto a usare un soggetto plurale si conforma ai nostri usi dialettali, e crea anche la terza persona plurale
Es. L’ Urchit a fican vuléntérá Vers Carscian Milano
I Mássinòit a fican vuléntérá vers Bíèlá
ecc.,
Quando poi i vari tempi richiedono l'ausiliare
(essere od avere) sarà questo a determinare il tempo.
. Es El me tona l'è ficà a Piasensà
El veust tona léva rúscà magér
Stesura incompleta
1a correzione dicembre 2010
Le norme.
Origine dei vocaboli e frasi idiomatiche. Pronomi ed aggettivi possessivi. La terminologia dei numeri. Vocaboli d’uso comune. La corretta pronuncia del Tarùsc. Particolarità ed Aggiornamenti. Glossario. Emigranti. Il dizionario etimologico. La famiglia. La Crugia, la casa. Zapin, utensili ed arredo. Gli animali, la loro casa e la cascina. Gli alimenti. L’arcumenta, l’abbigliamento. Il corpo umano. Autorità e paesi. Artusc, mestieri. L’ombrellaio. Strumenti dell’ombrellaio e del mulita. Gergo dei venditori ambulanti nei mercati. Tempo, misure e monete. Numeri. Al taruscin alla patafièta, (all’osteria). Mager e magera. Verbu e part, avverbi, particelle. Ausiliari e preposizioni. Verb. La coniugazione dei verbi.
Manca l’introduzione. (*)
A = arabo, C = luoghi, E = ebraico, Et = etimologie, F = Francese, I = Inglese, S = significato simbolico, O = tipici termini per indicare lo straniero, P = portoghese, Pi = Piemontese,T = tedesco, Ta = Tarùsc Z = altre locuzioni.
Tarùsc Italiano Descrizione
T bergna denaro Da bergen, mettere al sicuro, celare, quindi anche cose da nascondere, come appunto il denaro.
bull paese
bulla città Da Burg.
buscàu cesso Da Busch, cespuglio, boschetto, dove cioè l'ambulante poteva nascondersi per soddisfare i propri bisogni corporali.
casèr capo Padrone (da Kaiser)
gnùfèl bambino Ragazzino, da Gnufel, piccolo, debole.
guzà piacere Da gut, buono, bene;
músa minestra Da Mus, pappa, passata
cartòfel patata Da Kartoffel, appunto patata
scabià bere
scabi bevanda Da Schank, osteria, mescita
smèssar coltello Da Messer, coltello
tràmpul salame Più difficile è collegare
Trampel sciocco Con, persona goffa, sciocco (nell’attuale dialetto si dice “salam”
F colúbìn caffè Forse da coulant, che gocciola, cola, fluido.
gèrb pane Da gerbe, covone di grano
múss gatto Da se musser, nascondersi
patin letto Da patin, tavolaccio di caserma
tapà parlare Da tapage, schiamazzo
turnèla polenta Da tourner, girare, con il mestolo.
I bèf sedere Natiche - da beef manzo, carne e, per traslato, il richiamo anatomico è abbastanza ovvio.
milk latte Non richiede di spiegazione
mùss gatto A mause, una stranezza si chiama gatto con il nome del topo.
A
E tàréf Infetto bacato, tarlato, impuro agg. dall’ebraico tàrèph, sbranato dilaniato, poi cibo vietato, carne non macellata secondo il rito ebraico
S
Molti vocaboli traggono origine da assonanze o da similitudini; ad altri è attribuito un significato quasi simbolico: così, ad es.
mànja moglie Donna, da maniglia o anche manégía - palo di sostegno cioè qualcuno di cui potersi fidare, con cui potersi aprire, da cui esser sostenuto e trovare o dare protezione e sicurezza.
pastón risotto Come il pastone per gli animali.
feriò mantello Mantello da ferraíolo.
piulàt ubriacone Un frequenttore d’osterie.
vasciàga sgualdrina Da vascíàg – maiale.
batagìn orologio Che batte le ore. Da batach,
t’zùrla prete Per il Manni forse da un cardinal Zurla, nel '800 vicario di stato (per inciso ricordo che lo Stendhal nella Certosa di Parma cita, tra gli altri, un conte Zurla.
Caratteristici i termini per indicare alcune attività: es. medico e macellaio- l'uno squarta, rompe, gli uomini, l'altro i vitelli ecc.);
sbrúgnabacàgn medico Così il medico è lo sbrúgnabacàgn.
macellaio sbrúgnamajòl Macellaio come il è lo sbrúgnamajòl.
strozzabacàgn l'avvocato E non necessita di spiegazione.
zúfabacàgn carabiniere Da zúfà, prendere.
lo scarabucín lo scrivano
O Tipici anche i termini usati per indicare gli stranieri:
i brùcbèja i francesi Così sono i in altre parole i barbuti, i francesi rif. ai Galli.
i scíuchítón i tedeschi Che è cocciuto, testardo.
i bragkìna gli svizzeri Dai tipici calzoni o braghe dei montanari.
il pùriàn
taròn meridionali Di più difficile interpretazione è il pùriàn per indicare i napoletani ed i meridionali in genere, dal Pò in giù.
rascòn veneti Il nord-est dell’Italia.
Z Altre locuzioni caratteristiche:
il casèr del rundèl Dio Il capo, il padrone del mondo, in altre parole Dio.
il casèr di casèr Re Il capo dei capi, il re, l’imperatore.
il casèr di zúrla il Papa Il capo dei preti, il Papa
il casèr di bull il sindaco Il capo della città, il sindaco
casèr di mànji il sindaco Fino alla fine del 700’, è però davvero strano come si trova talora tradotto come "sindaco", il che è spiegabile soltanto con il fatto che, essendo emigrati per lavoro tutti gli uomini, nel paese erano rimaste solo le donne e quindi il sindaco aveva autorità solo su di esse.
il casèr di raspànt Il gallo Il capo delle galline, il gallo
casèr di mànji il lenone Sino al più complicato casèr di mànji il capo o padrone delle donne, cioè il lenone, il mezzano.
E’ però davvero strano come lo trovi talora tradotto come "sindaco, il che è spiegabile soltanto con il fatto che, essendo emigrati per lavoro tutti gli uomini, nel paese erano rimaste solo le donne e quindi il sindaco aveva autorità solo su di esse.
C Ed ecco i nomi di alcune città
Carscíàn Milano Non si trovano le origini oggi Carsciàn è una piccola frazione di Stresa.
carscianes Milanese per lombardo.
Pi
P
bulla del zúrla Roma Roma è la bulla del zúrla (la città del prete),
bulla del tor Torino Torino è la città del toro - bulla del tor
A proposito di etimologie può essere interessante ricordare come il Ferrero ritenga che:
Et lofi e lofio cioè brutto e cattivo deriverebbe da «loffa, suono imitativo per scoraggia non rumorosa», il che troverebbe riscontro anche in gerghi non italiani, ad esempio nell'argot francese, nel quale “loffe" significa semplice, di poche pretese. Cortelazzo e Marcato, invece, lo riferiscono ad una «probabile origine imitativa, da loffa - vento.
tartì defecare Possiamo riferirci ad una derivazione da - tortire, in altre parole torcere, in quanto chi si sgrava piega il corpo - (Ferrero).
* ) un cenno veloce e poi ci ritornerò.
Nei pronomi e negli aggettivi Possessivi vi è un riferimento poco spiegabile
Poco spiegabile Ad un “Tona “o Toni.
al mè tóna
io
al tò tóna tu
Ecc. al so tòna
al vos tòna
e così di seguito
del mè tóna è per mio e così via
(*) da terminare.
zero nient venti russìn Significa anche marengo
uno spuntòn Forse per il dito che "spunta"
dal pugno per indicarlo; ventuno Russinspunton
due silvèster Non si capisce il perché, salvo che
non trovi origine in una moneta d'argento. trenta
tre trént Che significa anche forchetta, f
orse da tridente quaranta
quattro pala Mano chiusa cinquanta
cinque sgrifia In pratica tutta la mano sessanta
sei dó trént Due volte tre settanta
sette pala e trént Quattro più tre, talora è detto
anche furchitón. ottanta
otto dó pall Due volte quattro. novanta
nove pala e sgrífia Quattro più cinque cento
dieci mina russìn La metà di venti duecento
undici trecento
dodici quattrocento
tredici cinquecento
quattordici seicento
quindici settecento
sedici ottocento
diciassette novecento
diciotto
diciannove mille
venti russìn Significa anche marengo diecimila
ecc. e così di seguito (più avanti riprenderemo l’analisi dei numeri
(*) a e b, manca l’introduzione.
E' da rilevare che alcuni vocaboli indicano cose molto diverse tra loro e non facilmente collegabili. L'esempio più tipico è tinajn (tenajn) che starebbe ad indicare il rosario per la preghiera e/o piccola tenaglia, ma che talora s’incontra citato come "il grappino". Così anche cotizà-sistemare, ma anche defraudare; grià - aggiustare, ma anche imbrogliare, ecc. Come sarà apparso evidente, le etimologie in genere non sono facilmente individuabili e con una certa probabilità si dovrebbe cercarle in locuzioni dialettali delle zone viciniori. Sarebbe molto auspicabile che qualche studioso di dialettologia o di linguistica ne tentasse uno studio sistematico. Mi è sembrato, invece, utile far seguire a questo lavoro un piccolo dizionarietto, (certamente incompleto e sarà aggiornato ogni qualvolta arriveranno nuovi vocaboli), mutuandolo sia dal Manni sia dal dépliant curato dalla Piccinino e dall'Aghina: tra le tre versioni esistono alcune differenze d’ortografia e di fonetica.
Non va dimenticato, a tal proposito, che di questo gergo esiste e/o sono reperibili attendibili documentazioni scritte e, quindi, la trascrizione del linguaggio parlato non è semplice e si presta inevitabilmente a dissonanze ed errori. Infatti, il Manni fa un esplicito riferimento alla parlata massinese, la Piccinino a quella di Gignese e dintorni, si sono aggiunte naturalmente tutte le parole che ho sentito la prima volta da mia madre e dall’anziano amico "il Tunin" Brisinese ( Urckin) che hanno avuto la capacità di appassionarmi e trasmettermi la loro conoscenza el Tarùsc. Mi è sembrato in genere preferibile seguire quest'ultima, che coincide anche con lontani miei ricordi. Alcuni, forse anche molti dei vocaboli elencati nel dizionarietto, probabilmente non sono tipicamente Tarùsc, ma piuttosto del nuovo dialetto locale non mi è sembrato opportuno farne una distinzione, in quanto ho preferito evidenziare un quadro, il più possibile completo, del modo di esprimersi, di comunicare di questi emigranti che, ovviamente, usavano indifferentemente sia il proprio dialetto natio sia il gergo che si andava formando, contraddizioni. Non troverete tutto, ma un piccolo vocabolario con molte particolarità, la storia delle origini della lingua ed i possibili riferimenti. Il resto del documento, la storia di Brisino. Intanto che cos'è il Tarùsch. Una lingua dei nostri vecchi “si dice “ fatta rivivere dagli ombrellai dei paesi collocati sulle colline dell'alto vergante, in cerca di fortuna per l'Italia e nel mondo; un modo come riconoscersi e per non soccombere, mi sembra poco, voglio pensare ad una parlata locale che è stata cannibalizzata dal progresso, oggi chiamiamo globalizzazione.
(*)
Un esempio di vocaboli di uso corrente che talvolta si differenziano tra paese e paese o anche nello stesso comune. In fatti la parlata di Brisino è diversa da Magognino, di Stresa e di Massino il paese di mia madre.
biròn zotico contadino
bacán Il non lusciát. Tutti quelli che non facevano gli ombrellai.
buzur Nel tardo 800’ era chiamato chi faceva il manovale.
agúzìn
gùzin l’usuraio Non c’è bisogno di commentare
rìbas no Un no irrevocabile
mager bello e buono Sembra quasi un complimento verso belle persone, bella magera, una bella donna
catúfíá prigione Si usa ancora oggi
minìn bacio Quasi una carezza non è mai un bacio appassionato ma dato tra parenti.
stafèl formaggio Dal tedesco
lúscà vedere
balmèla guardare Non riesco trovare un collegamento
barsèla negozio Tipica borsa a tracolla dei primi lusciát, con gli arnesi del mestiere.
bernarda serva Cameriera al servizio del padrone del paese un po’ come la perpetua del prete, t’zurla,
Introdotta come un fatto tipico maschilista verso una donna disponibile.
tèfía gravida E qua non c’e nessuna differenza tra una persona e gli animali
marisca fidanzata
pisèla Scudo, Questa non fa riferimento a nessun dialetto dei dintorni
Carlin
schavatin Lira
calzolaio
Norme per la corretta pronuncia del Tarùsc. ( da terminare)
a, e,
con l’apostrofo a‘,e’ Viene inserita al posto della dieresi a,e, cambiata si confondono in una medesima pronuncia la¬biale che sta fra la a, é la e.
- u,
con l’apostrofo ù al posto della u con la dieresi, richiede una pronuncia labiale stretta come nella u dei lombardi. Manca nella mia tastiera la dieresi per la “u”
eu Come nell’eguale dittongo il dittongo francese,
- ^ accento Prolungato su di una vocale o, un dittongo. ^
Es. Altri esempi
t’s ed il t’z
1 Singolarità del parlare alto vergane è il t's
ed il t'z in principio di parola ad esempio, t'zuca (zucca).
2 Barsèla è la pronuncia taruscína Mentre Barsella rappresenta la corrispondente stesura italianizzata.
3 la terminazione del singolare Es. lusciát anziché del plurale del tarùsc.
Nota Abbiamo adottato la terminazione del singolare, lusciát anziché del plurale del tarùsc, luscièt per la ragione che, sulla bocca dei profani al tarùsc, è meglio compreso al singolare.
Molti dei segni elencati non sono presenti sulla tastiera del mio computer.
Primo aggiornamento 1970.
Pronuncia e
grafica Le grafie delle diverse fonti utilizzate generalmente sono state semplificate ed uniformate. È stato usato in tutti i casi possibili il sistema ortografico italiano, integrato da alcuni segni diacritici per mantenere le varianti notevoli di pronuncia tra i diversi dialetti.
L'accento (quando non indicato, in parole plurisíllabe, s’intende parossitono) è segnato grave (‘) sulle vocali, ma per e ed o si distingue tra accento grave (è/ò) ed acuto (é / ó) per differenziare an che il timbro, rispettivamente aperto (o intermedio) e chiuso.
e ( - ). a, o, ú Il trattino orizzontale sulla vocale segnala la vocale lunga (es.: a). La vocale nasalízzata è contrassegnata dalla tilde ( - ). a, o, ú, indicano vocale turbata; e; vocale evanescente; ì vocale dieresizzata, è la semívocale.
Per le consonanti sono stati utilizzati i seguenti simboli fonetici:
- c' c dell'Italiano cena in posizione finale.
- c c dell'italiano cane in posizione finale
- g' g dell'Italiano gente in posizione finale
- g g dell'italiano gatto in posizione finale
- z z sorda
- z’ z sonora
- s s sorda
- s' s sonora (non si tien conto dei nessi automatici del tipo sb, sg, sv
- s^ corrisponde allo sc della grafia italiana
- z^ rende un suono simile a quello del francese j dí jòur
- t., d. Cacuminali.
- zh, dh Interdentali, rispettivamente sorda (come nell'inglese thing) e sonora (come nell'inglese that).
(es. s-c), (*) Altri simboli. Il trattino tra due lettere indica suoni separati (es. s-c). L'asterísco (*) precede forme etimologiche ricostruite, non attestate. Le traslitterazioni del greco, dell'arabo e di altri alfabeti non latini seguono le norme consuete.
Ordinamento alfabetico.
I lemmi sono ordinati in sequenza alfabetica stretta. In particolare, quelli composti di e più termini sono considerati, ai fini dell'ordine alfabetico, come se costituissero una parola sola. I segni diacritici non incidono sull'ordinamento, per il quale, inoltre, la l'i la j sono considerate equivalenti.
Abbreviazioni.
agg. = aggettivo; art. = articolo; avv. = avverbio; avverb. = avverbiale; escl. = esclamazione; fig. = figurato; imper. = imperativo; indef. = indefinito; inter. = interiezione; locuz. = locuzione; n. pr. = nome proprio; part. pass. = participio passato; plur. = plurale; prep. = preposizione; pron. pronome; scherz. = scherzoso; sett. = settentrionale; sf. = sostantivo femminile; sing. = singolare; sm. sostantivo maschile; sn. = sostantivo neutro; sostant. sostantivato; s.v., ss.vv. = sotto voce, voci; v. = verbo; var. = variante; verb. = verbale.
da aggiornare. (*)
Afèresi. Caduta di uno o più suoni all'inizio della parola.
Africata. Consonante che deriva dall'unione di una --- > occlusiva e di una--> costrittiva.
AggIutinazione Fusione di un elemento grammaticale (articolo, preposizione ecc.) nel vocabolo che segue.
Analogia Influenza esercitata da una parola sulla fori-nazione di un'altra.
Anaptíssí. Inserimento in un gruppo consonantico di una vocale.
Anomalia. Irregolarità delle forme dei nomi e dei verbi.
Arnifrasi. Figura retorica che consiste nell'usare una parola o un'espressione di senso contrario a ciò che si vuole dire realmente.
Antonomasia. Figura retorica che consiste nell'adoperare un nome comune in un'accezione particolare e universalmente nota, o un nome proprio famoso, per designare persone o cose che ne ripetano le caratteristiche.
Aplologia. Fenomeno linguistico per cui, in una sequenza di gruppi sillabici identici, uno risulta soppresso.
Assimilazione Fenomeno fonetico per cui si verifica l'adattamento di un suono a un altro che lo segue o lo precede.
Base. Forma linguistica che si ritiene originaria rispetto ad altre che la continuano.
Calco. Fenomeno linguistico per cui modelli lessicali e sintattici propri di una lingua sono limitati da un'altra.
Coronimo Nome di regione.
Costrittiva. Consonante la cui articolazione presuppone il restringimento del canale espiratorio e determina un soffio prolungato, più o meno vibrante.
Deglutinazione. Separazione di un suono originario all'inizio di una parola, avvertito come elemento grammaticale ( articolo preposizione eccetera, protonico.
Denominale. Verbo che deriva da un nome.
Dentale. Consonante articolata appoggiando la punta della lingua contro i denti.
Deverbale. Nome che deriva da un Verbo
Dissimilazione. Fenomeno fonetico per cui fra due suoni simili o identici di una determinata sequenza si verifica la tendenza a differenziarsi.
Enantiosernia. Evoluzione semantica per cui un vocabolo assume un significato opposto a quello etimologico
Epèntesi. Inserzione di un elemento non etimologico (suono o sillaba) all'interno di una parola.
Epitesi. Aggiunta di un elemento non etimologico (suono o sillaba) in fine vocabolo.
Interdentale. Consonante che si articola con l'apice della lingua fra gli incisivi superiori e inferiori.
Labiale. Suono che si articola per mezzo delle labbra.
Metaplasmo. Fenomeno per cui nel passaggio da una lingua a un'altra una parola cambia declinazione, coniugazione o, anche, numero o genere.
Metàtesi Mutamento all'interno di una parola dell'ordine di successione di uno o più suoni.
Morfema, Unità linguistica elementare fornita di significato, anche grammaticale.
Nasale. Consonante la cui articolazione avviene attraverso l'emissione di aria dalle fosse nasali.
Occlusiva. Consonante articolata con chiusura totale del canale fonatorio, cessata la quale segue un'esplosione dovuta all'improvviso espandersi dell'aria espirata.
Onomasiologia. Settore della linguistica che studia quali significanti o denominazioni indichino uno stesso significato.
Onomatopeico Relativo a un'espressione o a una parola che richiama in modo immediato un oggetto o un'azione imitandone il suono.
Palatale Consonante articolata facendo battere contro il palato duro il dorso della lingua.
Paretimologia. Etimologia apparente niente corretta, ma arbitraria in quanto priva di fondamento storico o scientifico.
Prefisso. Morfema (per lo più di origine Preposizionale o avverbiale) che si pone davanti a una radice o a un terna nominale o verbale, cori la funzione di precisarne o rafforzarne o, talora, anche capovolgerne il significato.
Pròstesi. Aggiunta di un elemento non etimologico. (suono o sillaba) all’inizio della parola.
Protònico. Relativo alla sillaba che precede quella accentata.
Retroformazione Formazione di una parola ottenuta da un'altra, a cui è stata soppressa una parte, per lo più il suffisso.
Sibilante Consonante nella cui articolazione l'aria espirata produce una sorta di sibilo o fruscio.
Sintagma. Raggruppamento minimo di elementi significativi che formano l'unità base e sintatticamente autonoma di una frase.
Sonora. Consonante la cui articolazione determina la vibrazione delle corde vocali.
Sorda. Consonante la cui articolazione non richiede la vibrazione delle corde vocali.
Suffisso Morfema che aggiunto a una radice serve a formare una nuova parola, coli significato specializzato.
Toponimo Nome di luogo,
Velare Consonante articolata toccando coli il dorso della lingua il velo palatino.
perché…
Peregrinando un po’ in tutte le direzioni, non solo i nostri lusciát riportavano ciascuno il proprio contributo all'accumulo del materiale greggio, ed in solidarietà, pur senza pianificazioni e pretese, collaboravano al formarsi del gergo proprio. Dico gergo, perché un fragile costrutto, per la sua artificiosità ed elastica convenzionalità, non può appropriarsi del titolo ono¬rifico di vera lingua. E' tuttavia sempre elemento di lingua viva l'ap¬porto che altre lingue, anche se in edizione vernacola, fanno confluire nell’eclettico nostro tarùsc. Come non mettere un pizzico di vanto anche in questo settore di lavoro ed attività vergatina. Anch'essa positiva non solo come aggan¬cio e come spinta reclamistica, ma significativo di una popolazione capace di rigenerarsi, inventando e creando nuovi mestieri. Un plauso al paese del rilancio o meglio agli or¬ganizzatori della reclame, a mezzo stampa, Musei e Convegni. A loro si deve se l'argomento è balzato in primo piano. L’inaugurazione del Monumento all’Ombrellaio d'Italia, in Massino Vi-sconti (sett. 1972), ha richiamato una piccola rappresentanza di vecchi Luscíàt ed ha fatto un pò di rilancio del Tarùsc come vernacolo di una categoria non del tutto tramontata.
Le parole si trovano raggruppate, secondo gli argomenti.
Per i pronomi e gli aggettivi possessivi diventò d'uso il nome di Tona (ossia Tonio) prescelto fra tanti altri nomi correnti nell'uso comune vergantino.
1. Pronomi 2. Aggettivi possessivi
io el me tona (oppure brigàl) mio del me tona (oppure brigàl)
tu el teu tona tuo del teu tona
egli, ella el seu tona suo del seu tona
noi el neust tona nostro del neust tona
voi el veust tona vostro del veust tona
loro el seu tona loro del seu tona
(*)
Bardasc e bardascia Figlio e figlia Questo vocabolo si trova anche in alcuni dialetti abruzzesi.
bernarda serva
(anche vagina) Si usava tal nome proprio, femminile, come già, specie nel milanese, si metteva in campo quello di perpetua.
cieusp o deèrbi vecchio padre Vecchio in genere, saggio
ciospa o deèrbia vecchia madre Vecchia in genere, saggia.
minu uomo (in genere), Suppone una certa reminiscenza dal latino homines (pl.) ed anche dello spagnolo hombre il quale pure significa uomo.
virlòn uomo-alquanto spregiativo La radice ci rimanda al latino vir (uomo) e la parola intera ci fa accostare allo spagnolo varòn (uomo). In it. diremmo: un pezzo d'uomo. Il tarùsc, che voleva evitare le cortesie, dava del " virlòn " ai contadini, comunemente detti, bacàn.
mazucà uomo sposato La parola potrebbe essere specificata la stesura riferita all'uomo che “l'ha metù su cà”, ha messo su casa.
l'ha metù su cà L’ha metù al sciucheta a partì (ha messo la testa al posto) Ma si può accettare il significato del ted. metze, " donna " cui uno si lega
mazucamént matrimonio
manija moglie (o donna in genere) Se il marito è la chiave per la porta di casa, la moglie però e la maniglia senza il cui ausilio la porta non si apre.
manìja téfia donna incinta L'aggettivo aggiunto fa delicato accenno al processo della maternità in corso, per il quale l’etimo fondamentale di teca e di tegia fa riconoscere un accostamento plausibile di " custodia " in grembo.
Nel biellese si usa cieusp e specialmente cieuspa nel senso di spregio, applicato alle persone anziane della casa.
marasà bagnato Inzuppato
gjuméll
e
gjumèla figlio
e
figlia I figli non erano unici ordinariamente, e perciò ognuno nei confronti dell'altro poteva essere detto gemello o gemella, non per il giorno della nascita, ma per il vincolo dello stesso sangue e dello stesso grembo.
gnufèl ragazzo Il termine in genere, fu preso di sana pianta dal gergo piemontese.
gnufèla ragazza Ragazza da maritare
gnazi servo - uomo di fatica L'appellativo ha significato d’uomo che deve stare sottomesso ad altri perché non è in grado di districarsi nei lavori.
marish fidanzato Come nel nostro dialetto la parola ha deposto l'a iniziale dandoci gli aggettivi muros e muròsa, così è avvenuto per i suddetti due termini taruscini, i quali stilizzano per qualche dialetto d'arca teutonica
marisha fidanzata
ormòna elemosina Cercata dai mendicanti e/o accattoni
bèrgna
sold denaro E' termine molto in uso in Alta Italia, ma suppone un etimo ted. Quale in berechnen, (calcolare).
brisòld ricco Il suffisso sold è ben esplicativo. Penso che la h iniziale fosse in partenza una t, facendo leggere trisold: e nel nostro dialetto dire che uno aveva tri-sold, significava definirlo un riccone Tenendo presente il ted. Brieftasche (portafogli) ci si sente pure instradati.
trisold ricccone
schèj (pl.) soldi
E' termine veneto che i lombardi hanno mutato in ghèj. Il tedesco chiama schein o scheck un biglietto (assegno) di banca.
pisèla lira Nel nostro dialetto il termine significa taccola (di piselli) d'uso corrispondente a quello delle cornette dei fagioli. El teu tona gh'a pisell
ruff fuoco E' del puro gergo pedemontano. Il lat. rufus, significa rosseggiante (come la fiamma).
tánajìn preghiera o rosario
le " tanaje " mandibole
tenaglie Sono le mandibole: e pregando si mettono in azione a mo - di tanaja e tanajin
squadràs confessarsi Alla buona confessione è connesso un buon esame di coscienza che è come uno squa¬drarsi o inquadrarsi.
crugia e/o crogia casa (o paese nativo) Fa pensare subito alla culla. Altrove si dice la, e questo aiuta meglio a capire che si accenna al sito più ritirato della casa, dove sta la culla, entro la quale si crugia (nell’alto vergante) l'ultimo nato. Per antonomasia si intende tutta la casa, anzi tutto il paese. Non siamo neppure lontani dal ted. kushee (letto, cuccia). Alla crugia correvano i pensieri più teneri e nostalgici dell’emigrante (dell'ombrellaio ) lontano.
crugìn casetta La casa dove abita tutta la famiglia, patriarcale.
magiurénk (ed. la crugia)….., Capo della casa. Il termine è di sapore latino (major) e di consonanza tedesca
patin letto Permette di fare riferimento al ted. patte (risvolto) oppure può essere riferito al Fr. patin (tavolato) col senso che ha nel gergo militaresco.
buscàu cesso Il tedesco busch significa " cespuglio " e ricorda il nostro dialettale buscòn, che, per l'ambulante, era il più naturale facile nascondiglio per la bisogna. Passò ad essere chiamato così anche il piccolo recesso della casa.
cubià dormire Siamo sulla scia del latino che ha il verbo cubare (dormire) e cubiculum (camera da letto).
el cubi posto da dormire Letto, fatto di fieno, in cascina
ghèna sghèusa fame Il franc, ghène accenna al vuoto (qui ci si riferisce a quello dello stomaco).
morchì mangiare Con lo stesso senso è parola corrente del gergo piemontese come quella di morsiè ossia morsicchiare del pane.
picinà mangiare Picinà nel senso di divorare in fretta e fino in fondo quello che i ha, si trova anche nel nostro gergo. Nello spagn picàr significa " beccare "
taréf bacato, tarlato, impuro agg. dall’ebraico tàrèph, sbranato dilaniato, poi cibo vietato, carne non macellata secondo il rito, o di animale infetto
traùna chiave Anche in senso metaforico, risoluzione, sesso
sbarlì morire Forse la parola fu mutuata dal dialetto piemontese e sembra che possa ricordare verbo italiano sbarcare sternità sulla sponda dell'eternità.
sbalugià rovesciare gli occhi Comunque il nostro gergo ha il termine sbalugià che significa " rovesciare gli occhi. Dal canto suo il ted. ha il termine sterben (mo-rire)
Questi richiami valgono anche per la parola seguente.
sbarliosa
sbartiosa morte Avvertimento
Interesse
lì lì per sbarlì agonizzante Avvertimento di morte, usato ancora oggi nel nuovo dialetto.
(*) Da aggiornare.
Mancono e saranno inseriti, quelli del contadino, del falegname, del carpentiere, del muratore, del insaccatore, del macellaio e di alcuni mestieri del 700 e ‘800 ecc..
bals setaccio Ha dato origine alla denominatone di balsè applicata all'ombrellaio, il quale vendeva e riparava anche i setacci. Etimologicamente Può riferirsi all'italiano sobbalzare balzellare come fa la farina quando viene setacciata
maga pentola In Valsusa un pentolino è la mària In ted. magd è la sguattera e magen significa " stomaco " al cui servizio è diretta la pentola.
smèssar coltello Ripetono bene il ted. messar (coltello).
smessarinn coltellino
rémul cucchiaio Grazioso il riferimento al remo, la lunga pala che viene azionata dal barcaiolo.
trént forchetta Oggi la forca per girare il fieno e/o il letame.
ràta
cuol Legna
carbone Rata per i vergantini è il rododendro, quindi ogni ramaglia per il focolare.
Da aggiornare
cafana cascina fienile L'italiano, capanna spiega la dicitura taruscina. Ma per l'ombrellaio la parola vuol precisare che gli interessa solo il fienile, dove potrà tuffarsi per i suoi riposi. Lo spagnolo. ha chapuzar (tuffare) ed il ted. kafìg (gabbia).
majulèra stalla
majoòla mucca Il dialetto vergantino offriva già al tarùsc il termine manzòla (giovenca).
légar
rigorda fieno
terzo fieno E' difficile orientarsi per una etimologia che soddisfi a meno di pensare all'ultima parola d'una frase che il lusciát doveva pronunciare spesso, quasi padroneggiandosi davanti al sacrificio di dover dormire entro una tana nel fieno: " Ghè be" da" sta lègar ". Un poco persuade anche il ted. legen (mettersi giù a dormire).
frisa paglia La paglia schiacciata può ben essere asso, migliata alla frisa (nastro). E' da ricordare anche l'it. frisare ed il fr. frise (fascia).
sgarbanta gallina Le abitudini della gallina, specie se essa gira in libertà, è quella di raspare continuamente in terra.
raspánta
kasér di sgarbant gallo
sgarbantin pulcino Talvolta su usava anche per i bambini
sgarbantusc pollaio
tabù o tabù cane Sembra un’abbreviazione d'una forma dialettale: Un tè ca buja "un cane che ab¬baia.
krúgia del tabu cuccia del cane Tabu sta per cane.
muss gatto E' la cosa più strana del tarusc, che il gatto i sia chiamato col nome della sua più ghiotta preda, il topo. Infatti, mus in lat. Significa proprio " topo " A buona giustificazione si può pensare al francese arcaico se musser (nascondersi), oppure a muser (oziare).
elusa capra Altra stranezza in campo zoologico. Verro in italiano è nome assegnato al porchetto; però l'it. arcaico dava a verro il significato generale di " maschio " applicabile anche al capretto.
verr capretto
burùcc agnello Agnellino, agnello.
burùcia pecora Pensiamo alla variazione avvenuta su bérruccia.
bèruccia da bèra beura Nel dialetto moderno beura è precisa¬mente la pecora.
beck caprone È comune a molti dialetti.
vasciagh maiale Oh, ci voleva anche la quarta stranezza! Eccola! Da váche (la vacca in francese) è venuto fuori il maiale. L'italiano. ci accosterebbe solo al “ vaccaro " che solitamente custodiva non solo vacche, ma anche maiali.
jébul cavallo
karren carretto Un richiamo ad una probabile etimologia ce lo offre il tedesco schecke (cavallo).
karren cum jébul carro e cavallo Oppure cavallo con carrozza.
árbigh asino
arbigon mulo
mursèll (pl.) pidocchi Il povero lusciát ben ne conosceva il " mor¬so ".
sautaréj (pl.) pulci Inafferrabili per la loro abilità nel saltel¬lare. Ricordare i dialetti sautà e sautaréll.
culubijn caffè Nel dialetto locale culòbia è l'insieme dei co¬laticci di cucina destinata al truogolo del maiale.
culubijn cum milk
o lacch caffè e latte Potrebbe derivare da Colombo scopritore delle Americhe. Il lusciat si esprime in senso spre¬giativo verso il caffè, certo riservando le sue preferenze al vino. Nel patois francese si¬gnifica cosa liquida che cola. (Coualant come liquida)
élban uovo Sembra di provenienza tedesca, attraverso a qualche forma dialettale: infatti, il ted. hellen significa "guarire ": ed heizen " scal¬dare " E poi hiezen ball. non potrebbe avvicinarsi al senso di " palla scaldata "?, che sarebbe proprio l'uovo scaldato. I vecchi lusciát mi ricordano la mania dei garzoni di rubare uova, nei pollai e sui fienili, e, si sa il rubare in ted. si dice anche heisben. Accetti in ogni modo chi vuole.
élban cum lorgnu zabaione Frullata d'uovo con vino
gèrb pane, Facile il raffronto con il francese gèrbe (covone di grano).
gèrb cum milk pane e latte
milk latte E' pure termine inglese.
milkessa o milkana quagliata Il nome stesso dice che si tratta d'un succedaneo
del latte.
molina o mulina farina Si pensa naturalmente al mulinare della mola nel metodo antico dei mugnai.
turnèla polenta Ouest'altro grazioso termine ci fa rivedere le massaie d'un tempo che ogni giorno giravano, ossia tornellavano col mestolo di legno, la profumatissima polenta che andava. -cocendo nell'apposito paiolo di rame. E’ bene rammentare il Fr. tourner (girare).
mosa minestra Oltre che minestra doveva Indicare qualunque cosa preparata per il pranzo o la cena, come in linguaggio militaresco si dice " supa " o " rancio " la distribuzione del giorno, sia brodo che minestra, ecc. La parola è di conio taruscino, però con reminiscenza nordica; infatti il ted. mus significa purea o marmellata.
jénk riso
pastòn risotto Chiara la significazione di riso asciutto che (passi il paragone), un poco si assomiglia al pastone delle galline.
sapeta michetta Pensiamo al piccolo, lusciát in erba che, come, già in famiglia, sminuzza la sua michetta e coi pezzetti tra pollice ed indice, zappetta o zaffetta anche lui, a gara col suo padrone, nel tegamino, dove è stato cucinato qualcosa per " tramlúra " (pietanza).
tramlúra pietanza Ci darci il significato di spezzatino, di " carne tramlàa ", ossia spezzettata.
varna o varnera carne
in genere O c'è stato qui un ricamo sul termine verro (porchetto) con una flessione in varnera e, oppure c'è qualche reminiscenza dialettale tedesca.
varna cum cartòful carne con patate Stufato con patate
tràmpul salame Nelle zone agricole i maiali venivano allevati in tutte le famiglie e macellati per il loro uso e consumo. I salami freschi per un poco di tempo venivano appesi a delle stanghe di legno, onde, se toccati, dondolavano: di qui il senso di “trampolar”, ossia " barcollare "vasciágh - maiale o carne di maiale. Se non fu desunto da un nomignolo interessante i Vacciaghesi, non saprei dove aggrapparmi per una etimologia
cartòful pl. patate Dal tedesco kartoffeln
buréj o burlagh pl. fagioli Vi è una varietà di fagioli dialettalmente noti proprio sotto il nome di burlot o barlágh. La radice richiama alla proprietà del burlà (rotolare).
stafél formaggio E' termine del dialetto biellese e valsesiano per indicare un formaggio scadente, tipo il " vaciarin " Pensare al ted. steifan (= indurire).
nusucc olio di noce (od olio in genere)C'è nel dialetto vergantino la stessa parola per indicare il residuato, pressato in pannelli, dopo compiuta la pressione della massa dei gherigli delle noci, sotto il torchio
vuncin burro o qualunque condimento grasso, oppure sporchino
tàfiòla castagna .
garbia uva .
risìva insalata Mi sembra logico pensare la rizziva, dall'it." indivia " e " rizza “ delle insalate
gravisna sigaro E’ detto gravisòn il torsolo del granoturco: chiara è la sua rassomiglianza coi primitivi sigari del Piemonte. Si può pensare anche ad un surrogato del tabacco, che per i poveri lusciát poteva essere trovato nei cosiddetti barba del granoturco.
arcunimenta vestito Il tarùsc suppone della fantasia, quale ha messo qui, ad esempio, per modulare con una finale di stile spagnolesco, l'it. arca (cosa che racchiude o che archivia).
arcunimenta cum lusnéj abito con buchi Si usa ancora oggi per gli abiti del prete.
slandrina camicia L'it. palandrana (vestaglia), se al diminu¬tivo, offre una buona indicazione, mentre il dia. slandra ha significato spregiativo per la donna.
cravatisna cravatta
macareu e macarrulinn fazzoletto
sciarbetul pl. scarpe La parola non è ostica per l'Alta Italia, per¬ché essa stilizza con molti dialetti, presso i quali c'è (plur.)
sciavàtul e scavàtt borsellino o portafoglio
stranscètt (pl.) calze
batagìn orologio Allora d'orologi v'era solo quello da tasca assicurato con una catenella, per cui se sfug¬giva dalla tasca penzolava come un piccolo
bátàcch batacchio quello della campana, ma anche tontolone.
la brìa catena la catena dell'orologio
batènt ora Pochissimi possedevano un orologio: perciò a regolare le ore era il bastone della campana più grossa. Es. " Sgrifia batént " ore 5).
rabatìn rivoltella Qualcuno forse teneva seco anche questo capo di corredo.
rabatin bimbo Rabatin in Tarùsc è anche un bimbo, piccolo di statura, ma vivace: arzillo e sicuro di sé, era l'ombrellaio che era munito, di quell'oggetto (fuori legge), ma è pure logico agganciarsi al franc. rabattre …. spianare o umiliare... un assalitore).
rabatìn Il malessere Le conseguenze di una forte bevuta, del giorno dopo.
pata e patin L’apertura dei pantaloni
Uno degli argomenti molto difficili degli ultimi due secoli.
sciuchèta testa Forse c'è sempre stato nel linguaggio uma¬no un accostamento tra testa e zucca.
chèja barba Sembra di fabbrica lusciatica,
mòcul naso Ci tiene in argomento l'it. muco nasale, op¬pure il comunissimo moccolo, ossia un piccolo rimasuglio. d'una candela gocciolante. Nel nostro gergo si dice, " candela " il muco colante dai nasi... infantili
smorfia bocca
grinta
ghigna faccia Smorfiosa - si trova anche nel dial. piemontese: è bene pure ricordare il franc. grimace (smorfia).
svéntul pl.. orecchie
Lusnéj pl occhi Il dialetto lús (luce) ha imposto il nome proprio agli organi della vista, ed ha messo in uso il verbo lusnà (guardare).
gárgánta gola C'è proprio la stessa parola nello spagnolo.
lézar capelli Della testa - E' evidente la sua derivazione da un termine francese, un po' antiquato come senso, un po’ antiquato come senso, lézardes pl., che significa peli.
lézardes pl peli Che significano i peli del corpo.
grapèll al sing, grapèla aggrapparsi grappare Anche i pupi sanno mostrare per quale servizio il Creatore ci ha dato le mani.
payarinn seni Bizzarri al il termine, di gergo, ricorda le rotonde pajarine, cataste di paglia, che, lar¬ghe alla base, si restringono verso l'alto: anche il palo che fuoriesce in cima completa quella forma che vorrebbe costituire una certa rassomiglianza con i sopraccennati ele¬menti fisici della donna, i capezzoli.
scatell pl ormoni Dal tedesco schachtel, scatola. Testicoli.
bèf natiche- sedere Si è andati assai lontano, in Inghilterra, per trovare un termine che velasse l'accenno un po' volgare della parte più carnosa del corpo umano Beef in inglese significa appunto. " carne ".
salvarégia gobba Nel nostro dialetto régia vorrebbe essere il cerchio di ferro che tiene insieme le doghe della botte, la quale fa gobba esterna nel mezzo. Sembra così, di poter rassomigliare la schiena d'una persona gobba alla botte e sembra pure che sia una regia, che salvi la gobba da uno sfasciamento
sciarabòch cieco Non vede un buco
slusciá o sluscinà urinare Da pioggia.
lirba o vaina sterco Di animali
tarir marchio Marca di fabbrica: Made in Taruscionia Però, senza saperlo ci si è trovati in linea col verbo francese tarir (venir meno, illanguidire).
tarèf ferita o malore
caudignenza gran caldo Afoso ed umido, gran caldo estivo.
brédul freddo e freddoloso E' una variazione di frédul, parola dialettale, forse del Piemonte. In Valsesia si dice bréviu (infreddolito).
intrucà infettato Uomo rimasto intrugliato, infetto di malattia venerea.
in fund del pian (agg.) fiacco, sfinito Malinconico, di ma¬lumore, depresso
bià bùsc senza forze Anche nato stanco.
biosma
febbre o malessere Senza precisare da che provenisse: influenza bronchiale, polmonite, reumatismo, renella, ecc.
sbrugnàs farsi male
patì la china patire la fame
lòfia Rabbia brutta Da non poterla vedere.
balènk (agg.) mattoide Una persona inaffidabile
stanscià magér essere allegri star bene
bàta l'armòna fare l'accattone Barbone, senza casa
luzòn poltrone Nessuna voglia di lavorare, mantenuto.
ramelàa su la scluchéta legnata in testa
smèssaràa coltellata
tafón pugno schiaffo Schiaffo che fa rumore.
sciarbàtulàa pedata Nel sedere
squita paura Da squittire, che fa anche stridere i denti.
Kasér del rundél Dio Il Padrone del mondo
Gran Kasér di t'zurla Il Papa Il capo della chiesa
Cardinalisna Cardinale
Kasér di t'zurla Vescovo
t'zurla
t’zurlon prete parroco
un grande prete Questo strano termine, quasi certamente fu assunto in zona degli Stati Pontifici (compresa la Romagna), dove al principio del secolo scorso era Vicario (di Stato) il Cardinale Zurla, il cui nome certo correva sulla becca dì tutti gli amministrati, forse in senso irrispettoso.
kasér padrone Si faceva leva sul ted. Kaiser (imperatore).
casàca gran capo
casaachìtt sudditi d'un re
kasér di kasér re
kasér di majurenk prefetto
maijurénk di stringon autorità Maresciallo dei carabinieri, Massima autorità sul territorio.
strigòn o ligùscla carabiniere
propost guardia di finanza O raccoglitore delle imposte, un tempo la gabella.
aba capo Dal piemontese.
kasér èd la bòla sindaco Massima autorità eletta dal popolo.
bulon città
buia o bòla paese
bòla di t’zurla Roma Città del papa
bòla del Tor Torino Capoluogo di regione
Carscianese Cittadini milanese
Càrsciàn Milano Non si comprende l’utilizzo per una grande citta il nome di una frazione di Stresa.
Màrgùzzeu zona del
Mottarone Mergozzolo è termine geograficamente ormai caduto dall'uso corrente; significava la zona volta a mezzogiorno che abbraccia tutte e pendici del Mottarone, dalle varie cime fino alle rive del Lago Maggiore, da Feriolo fino a Meina. L'antico nome potrebbe essere stato: Mergozzolo: e questo, a sua volta, da un più chiaro Meridio zolum col significato di "suolo esposto a mezzogiorno”.
lavagion Lago Maggiore In altri luoghi d’Italia il termine è entrato in gergo per significare un fiume, che nelle piene (alluvioni) certo “lava bene” le proprie sponde. Più raramente è usato per acque ferme o di lentissimo corso come quelle che lentamente scorrono nel lago, battezzato in linguaggio taruscino proprio con quel termine.
vergaànt vergante Ha una portata di estensione inferiore al Mergozzolo. Derivò dai participi latini vergens, vergans o virgens. Proponendo per primo ,vergens ossia che si svolge, esprime la sua reale estensione di declivi vertenti a mezzogiorno ossia esposti al sole d’ogni stagione.
ul balabiutt ballare nudo dice "fà mìa ül bälabiütt" non ballare nudo, non fare il matto.
Da inserire il commento. Va abbinato con il resto dei lavori allora conosciuti.
artùsc mestiere Dice una variazione di arte e artigiano.
biijèta soldato E' preso di pianta dal dialetto piemontese.
barusciàt berrettaio,
cappellaio.
blachèja barbiere Poichè blà vuol dire « fare» e cheia vuol dire «barba»resta ben definita l'opera del barbiere
biasìna sarto
brusapignàt cuoco Il mestiere, con una sola parola, è magnificamente inquadrato.
blàsciarbétul ciabattino “blá” (fare) e sciarbótul (scarpe).
mulità Arrotino
bùsé oste
Il nome è legato al locale dove si esercita il mestiere. Infatti, l'osteria è la buséra, che trae la radice dal franc. bussard (barile da liquori). A meno che si voglia pensare al dial. bús o búsa, ossia « taverna ».
blàscjubls Maniscalco Chi ferra i cavalli
blàscfer Fabbro Chi tratta il ferro
el ruger Stagnaro Riparava le pentole
garbúsa
garbusàt garbùse Cestaio, cestaio di vimini Da radice it. gerba, ossia « giunco», la materia prima del cestaio, detta meglio vimini o salici.
sbrùgna, sajócul piccapietre Da sbriigná (spaccare) e sajócul (sassi).
kasér dí majóì pastore, vaccaro Dal tedesco
lìgnamè falegname a.v.
pilusàt pescatore Da pilùsa. (pesca) e, questo dal verbo franc. pillier, che significa «gettarsi addosso a qualche cosa, fare a chi può prenderne di pìù: questo è il mestiere del pescare.
denciòn o sbagin avvocato Uno che mangia,
sbrugnabácán medico Medico
sbrugnaniaffl macellaio
scárabucìn scrivano Da scarabocchiare su carta e registri.
murselàt pidocchioso (accattone) Derivazione da mursèll (pidocchi).
munell ladro Significato dell'it. monello è stato perciò ben ridimensionato e ricaricato dal lusciat.
lignamèe falegname Uni che lavora il legno
tulee lattoniere Anche idraulico
Il centro di tutto il discorso, genti migranti per secoli si sono inventati i lavoro per sopravvivere al completo disinteresse delle stato centrale, in questo caso delle case regnati di turno.
L'apprendista, un ragazzino di sette, otto anni, il giorno di Capodanno, sulla piazza di Carpugnino, veniva affidato dai genitori agli artigiani ambulanti, sperando che avrebbe imparato un mestiere. "Al prumm dal lungon a Carpignin, a truà l' Casér senza an bergnin". "Il primo dell'anno a Carpugnino, a cercar padrone, senza un soldino" recita l'epigrafe posta nella piazza di Carpugnino. Molti fecero fortuna e molti vissero una vita fatta separazione dalla famiglia, di notte nei fienili, di freddo e fame. Il padrone provvedeva in tutto all'apprendista che al grido di "Ombrele!.. Ombrelé!" imparava a riparare e a costruire un ombrello. Al ritorno a casa, a Natale, come compenso, se il ragazzo era stato volenteroso e si era dimostrato abile, un paio di scarpe e un ombrello di seta Gloria e poi di nuovo in giro.
Umbrelé
od umbrilàt da ombrello e ombrello dal lat. umbracuIum, cosa architettata per far ombra: non aveva riferimento alla pioggia); balsé, o da « bals », che è il setaccio (articolo, pure curato dall'ombrellaio) oppure da barselé (l'uomo dalla barsella), abbreviato in balsè.
umbrelé ombrellaio così nel Milanese e nel Veneto.
umbrilàt o balsè “ così nell’alto Vergante
lusciàt così nel Tarùsc o gergo della categoria
bacàn manovale lavoratore di paese
bacagn Mano d‘opera,
contadini Tutti i forestieri, non brisold, cioè non ricchi, per il lusciat erano da considerare bacagn, specialmente i contadini.
sciuchitòn tedesco (testone) Quanto a testa (sciuchéta) il tedesco era ben duro, quindi sciuchitòn.
braghìna svizzero
La foggia delle brache, dava ragione a tale nomignolo.
brùchèja francese Se cheja è la barba, i francesi sono i brutti barbosi.
Puriàn
taròn meridionale napoletano, o tutti quelli che abitano dal Po in giù. Penso che la vera denominazione, intenzionalmente voleva essere quella di puritani, che aveva il senso di « eretici », come dire « non cristiani ».
carscianes milanese
sbagìn ebreo La parola ha significato ben ironico: infatti, sbagià nel nostro dialetto vuol dire « sbadigliare »... per la fame. Eterni sbadiglioni, bramosi di denaro, gli ebrei... e tutti gli avari
sciuvéra gerla Barsella ( borsona, portata dietro le spalle) dei primi tempi
bersèla o crica barsella La qualifica di “cricca” è dovuta al barcollare continuo del carico sulle spalle dell’ombrellaio in marcia. E « sciuvéra » fu il gerlo usato dai primi ombrellai per portarsi intorno il loro carico d'ombrelli e arnesi. Era simile a quella gerla usata dai garzoni dei fornai, per portare il pane a domicilio.
òn ornbrello rotto Lo spagn. ha l'agg. rajà (spaccato) ed il franc. il verbo rallier (motteggiare). Qui sarebbe l'ombrello rotto che attira i motteggi.
balmèla negozio
Nei dialetti delle valli alpine balna è un incavo sotto la roccia sporgente, quasi un riparo a tetto. L'aver posto il piede fermo in un negozio proprio (balmèla), segnava per il lusciat un principio di fortuna
balósegna giornata Ha senso piuttosto euforico: Ho fatto una buona giornata; ho lavorato bene.
chèifàn accorto, capace Era una delle qualità connesse col mestiere Il tarùsc ha attinto dal ted. cheifen il significato di « buon strillone ». La qualità principale dell'ombrellaio che batteva i mercati era infatti quella di saper « incantare » la sua merce, dapprima strillando forte
tirchis furbo (in senso di tirchio) Il termine, all'apparenza, sembrerebbe friulano
Da triminare.
sápitt (pl.) i ferri del mestiere Oltre alla barsèla il nostro lusciat aveva a tracolla la borsa di sapitt, che consistevano nei ferri del mestiere.
Iusúra (sing.) forbici
martilinànza martelletto
sbùsignànza punteruolo
ràmin filo di ferro Un tempo veniva utilizzato il rame
tulina latta
tulat lattoniere
flignànza refè refè di seta o di cotone
tacugnànza pezze pezze (avvolte a rotolo)
tàcòn pezza ritagliata a cerchio di circa 15 cm. di diametro, forata al centro e poi infilata in cima al bastone cucita e trattenuta da la
caplèta cappelletto cappelletto metallico (da fissare con un chiodino)
Quando si doveva fare tale riparazione al vecchio ombrello si diceva che bisognava,
fágh el bàrùsc ossia metterci quel cappellino
ragozz bacchette dì ferro
ramél bastone di legno dell'ombrello
ruchèt manopola
apréntis molla a scatto Fu introdotto un po' tardi questo congegno di pronta apertura: per la chiusura ve ne era un altro detto..
Vélox scatto di gancio molletta
Rítúse ombrello di seta
lùsela in fùnd del pian ombrello molto rotto A toccato il fondo
lùseia sbrugnàa ombrello con strappi
lùscia cu
lusnéj ombrello con buchi
cusisnà ricucire, rattappare
shidulà lavare
grià aggiustare in genere
la bálzána fine stagione Questa era cominciata magari assai bene,era proseguita con la speranza d'un buon incalmòn (guadagno), con una certa abbondanza.
bazéfla abbondanza Si può ricordare l'it. « a bizzeffe ».
in fúnd del pian fallimento
Questo poteva succedere per una malattia, ovvero per un tradimento o per un furto, o per contestazioni ingiuste. Ne nasceva facilmente una lite che magari faceva entrare in campo i denciógn (gli avvocati).
maréta lite (guerra) Al dissesto, alle volte, contribuiva l'andamento della stagione, secca in doppio senso, con siccità nell'atmosfera e nelle... tasche.
caudignenza ossia del gran caldo... La colpa non era tutta del sole perchè nei mesi della... si poteva rifarsi con un altro articolo, succedaneo
lúscìn parasole
Oppure si poteva fare qualcosa anche in un'altra partita, per esempio quella del....
crispin ventaglio o del
bals setaccio
montris sole Il bel tempo, caso mai, favoriva i lavori ed i raccolti lassù sui pendii del Vergante. Montris potrebbe essere una delle parole sfornate dalla zecca taruscina, non avendo essa riscontro con alcuna etimologia estranea alla parlata dei lusciat.
lusènta luna Risplendente, aiutava i viandanti.
luséntin (pl.) le stelle
sciavàt portafoglío Siccome era fatto di cuoio, non gli disdiceva il brutto nome di ciabatta. Restava sempre la cassaforte del lusciat.
ràta roba(merce) In magazzino
lràtùsc
seta Se non era di buona qualità la seta s'arricciava e diventava rituscìàa.
ruvina bícicletta Ha modificato il trasporto, non più a piedi.
ruìánt carretto Il trasporto tradizionale nelle campagne
rulanta auto Sconvolge la vita delle campagne
per sopravvivere ai balzelli, tasse ed ai ricatti.
luscì
piangere E' il primo verbo che il ragazzo, lasciando la casa e la mamma ha imparato a coniugare. Da la pioggia (lùscia) è facile il passaggio alla pioggia di... lacrime.
t'zùfàj prendere le botte Anche questa brutta esperienza ha accompagnato per anni ed anni l'apprendistato del duro mestiere. Può aver preso il senso da azzuffare. I nostri dialetti dicono suonarle. L'etimologia ci riporta alla lingua ted. ed avverbi fassen e zùfasser (prendere).
t'zùfà prendere botte
varlér o farlér Busse,
Incalmì capire o incassare La derivazione non la conosce neppure un vero lusciat. Ma per il senso di incassare è chiara la provenienza da (in) colmare la borsa.
incalmòn guadagno Incasso
caramíà o
caramelà discutere o
cantare Se vogliamo incomodare il greco, troviamo melos canto, oppure pescare nello spagn. caranúllo zuffolo. Nel nostro dialetto c'è caragnà, piagnucolare con cantilena.
ficà da lovigh marinare da andare, scappare, il senso di scappare è quello che piaceva ai piccoli garzoni, per andare a giocare, con i nuovi amici, oppure lo scappare via da un padrone duro e cattivo.
spafinà giocare Il giovane si divertiva a suo modo ed il lusciat, arrivato alla sua forma, volentieri Spatinava a buribim, a bocce. L'etimologia ci assicura una parentela col verbo ted. spassen, burlarsi, divertirsi.
carucìn fante otto
manija donna nel gioco a carte, pilòzz
màgutt manovale uno che non sarà mai operaio.
kasér re Padrone assoluto
grià fregare Il doppio senso è evidente, fregare per lucidare gli oggetti, è fregare per imbrogliare i clienti. L'operazione del lucidare produce il verso dei grilli (grìj): quella ai danni dei clienti è espressa bene dal verbo franc. griller (arrostire, ai ferri) o fors'anche dal sost. ted. griff (colpo mancino).
cotizà defraudare Da cotizár (spagn.), come dire defraudare di una certa quota
ruseà o rùscà lavorare forte la parola è comune nel gergo piemontese, ma fa supporre una provenienza da area tedesca. Infatti ruschen significa «schiena», la più impegnata nei lavori faticosi e prolungati.
rùsch lavoro rude
ruscadór gran lavoratore
carpì rubare Il termine è dialettale ed italiano insieme: carpire.
schijà pagare siamo in dialogo coi veneti, per i quali sappiamo cosa siano gli schéj.
el metona làsa stanscià io lascio andare l'affare Perdere un provento
smena o smina perderci E' un leziosismo lombardo
sgurà vendere Dar via, riuscire comunque a vendere a dispetto del mercato
bulàIa vendere vendere un primo capo Il termine è nel dialetto nostrano.
tramlà o tramià affettate Una certa parentela deve esserci stata con l'it, tramischIare e il franc. antremèler, tutti con senso di fare una mescolanza dopo aver tagliato e sminuzzato. Vale per la cucina soprattutto, dove tramlura vuol dire «pietanza». In gergo taruscino aveva il senso di ritagliare pezzetti di stoffa o di latta.
stanscià stare Con leggera variazione di senso sull'it. stanza e stanziato (dimora stabile).
stanscià da
lovigh Trovarsi lontano Per almeno un anno
ravaità Girare, per il mestiere Su sfondo dialettale piemontese, la parola era usata come definizione del mestiere stesso dell'ambulante: « el lusciàt cà ravàita ». La radice rav suppone moto in discesa e quindi crescente
luscà Vedere Come fu detto degli occhi, anche questo verbo ha la sua radice etimologica nel latino lux.
blá fare Fabbricare
disbalà dire Annunciare
disbalua chiacchierata Va bene qui ricordare(sballare), ossia dare il Fr. deballer ad una notizia. Ma la radice è delle lingue neolatine: ricordare il discorso.
tapà
parlare con vigore L'etimo l'abbiamo nel francese tapage (schiamazzo : l'estensione di significato è da attribuire ai nostri taruscianti.
tapà rIbas non parlare (tacere)
tarunà o strilà parlar forte Sembra di sentire qualche eco del tuonare
Infatti il dialettale trunà, passa per l’inserimento di una a “tarunà”
traunà chiudere si può far richiamo all'it. intravare, infatti molte porte un tempo si chiudevano dal di dentro con un travicello trasversale. Un supposto travunà, perdendo la v, è diventato un traunà
sluscià piovere o orinare Se lùscia è la pioggia, significa piovere. Non ha il merito pieno dell'inventiva il lusciat vergantino perchè il termine era già sulle bocche di tutti nelle valli Piemontesi. In Alta Valsesia slórcia è l'acqua. Facile anche il Passaggio alla bisogna del mingere.
scabià bere Nel gergo piemontese vino si dice anche scàbbiu: da esso si è dedotto il verbo scabià
(bere a sazietà). Come radice può essere
ricordato il ted. schank (mescita).
fumisnà fumare a pipa
gravisnà fumare sigari
bàgul fondo di pipa
Flcà o tuvajà andarsene Per il primo si è attinto al gergo piemontese. Anche per il secondo bisogna ammettere una scelta ben facile fatta dai primi lusciat nelle parlate dell'Alta Italia che avevano già il verbo tuvajà (andarsene in fretta).
firmisina firma
firmísnà firmare (un contratto)
s'cíunà appioppare E' usato solo nel senso di assestare ad alcuno un pugno, una sberla, ecc. Con fonetíca varia la parola era già nel gergo di varie zone lombardo-piemontesi. Nell'espressione par dí sentire lo schiocco della sberla.
guzà piacere (gustare) Per bocca degli ombrellai la parola era passata nel gergo massinese. Ma dove il tarùsc l’aveva colta?... Certo entro l'arco alpino, perchè l'etimo di essa è nell'it. gusto. Vi collima anche l'etimo ted. gut. (bene, buone).
fa créna far credito C'è una reminiscenza nel francese crépin (credito).
stramà fare un prestito Anche preparare il giaciglio per le bestie
Stramà bùse negare un prestito Sembra un linguaggio da pastori e da vaccari: mettere stramatico per il letto delle bestie.
stancià in fund del pian malridotto Capitava anche questa evenìenza, a qualcuno dei più sfortunati,... di trovarsi a terra, In fondo al piano, per gli affari o per la salute.
farlér busse Quelle toccavano al povero gnufél e proprio dalle mani o dalle scarpe del Kasér o Casèr (padrone). A consolazione dei poverini però arrivava loro magari all'insaputa del padrone, una qualche...
grapèla Buonamano
mancia Mancia. Infatti grapèla è la mano, detta pure sgrinfia.
da terminare.
TEMPO STAGIONI
el Prumm del Lungós il Primo dell'anno O il primo di un
lungo anno, freddo,
lavoro Primavera
Iungós anno Estate
tréntin mese Autunno
mezzin quindicina Inverno lungo anno, freddo, lavoro
Lusneu alba
Lususa mattina NUMERI Da terminare. (*)
Inbruna sera (e notte)
MISURE
Tirantòn litro o boccale spuntòn uno
mina tirantòn mezzo litro silvester due
scuvròla o butrisa bottiglia trent tre
mina butrisa mezza bottiglia pala quattro
scuvreu bicchiere sgrifia cinque
scivrulin bicchierino du trent sei
MONETA pala e trent o furchitòn sette
burél soldo, denaro do pall (o lustra) otto
pisèla lira pala e sgrifia nove
russin marengo mina russìn dieci
mina russìn mezzo marengo ½ marengo10 lire
sgrifia éd russìtt 100 lire
sciavatòn scudo
disbalura dozzina
mina disbalura mezza dozzina
Taruscin
taruscina Uomo
donna Abitante dell’alto vergante
patafijetà hosteria Osteria,
patafìjéta Insegna dell'osteria dall'it. pataffio e dal dialettale pataffia
Buseron albergo Buseron busure, locanda con cucina
lorgna vino Anche bevanda alcolica
sbuja mangiare
murchì rosicchiare qualcosa da mangiare
el sbuj(atto) il mangiare
scabià bere Senza accento è malattia
patinà giocare
schijà pagare
ripusà i s'ciòzz riposare le gambe allungarsi
el cubi l'atto del dormire
cubià dormire Questi i principali motivi per cui i nostri lusciat e/o taruscin si dirigevano con piacere verso le patafijetà notissime ed invitanti bettole, lungo le poche agevoli strade... d'un camminare senza fine.
búsé e busina oste e ostessa Loro amici gli osti e loro delizia il buon vino
buséra hosteria Infatti, un tempo, quei locali di richiamo per i devoti di Bacco, erano dei veri bar o tavernette.
búséròn
piola albergo
taverna Più delle volte era un’osteria con camere.
Normalmente un a dispensa di pane e vino.
gèrb e stafél pane e formaggio Questo doveva essere il classico spuntino, stuzzicante ed esigente delle buone associazioni liquide.
piulàt l'ubbriacone
piulàt o in ciarina sbornia Questi termini antipaticamente odoranti di vino mal digerito, ricordano precisamente la piola, spinetta, che a volontà di chi la toglie, lascia spillare dalla botte il tesoro contenuto. Chi fa lavorare troppo la piola è di conseguenza un piolàt. Il traditore non era il busé che portava in tavola quanto comandato, ma l'elemento colato prima dalla vite e poi... nelle gole
lòrgnu vino rosso Così si esprime il gergo biellese, come altri dialetti piemontesi, per indicare il vino, mentre in Valsusa indica un recipiente dì terra, tipo olla, per mettervi il vino od altri liquidi. Il termine lorgnu apparteneva anche alla classe degli stagnini.
ràcàgna grappa
ràcagnin grappino Anche la prima bevanda del giorno dopo una grande bevuta
karamlà magér cantare bene e forte
pilòzz carte da gioco Una partita a scopa, a brìscola od a tarocchi poteva consumare lentamente una parte di serata, inpreparazione al sonno.
ghirighèla gioco della «morra» Deve avere attinto a qualche gergo dialettale da un termine significante «groviglio od intreccio disordinato » tale è in risultanza tale strana forma di gioco.
Di quando in quando bisognava pure che anche il nostro lusciat concedesse una parte del suo tempo ai diritti dell'affetto, dialogando a distanza con i suoi cari. Ed allora prendeva in mano finalmente anche la « piuma » e, chino sopra un foglio bianco, si ingegnava a scrivere qualche cosa, dì sue notizie
pilozza carta (da lettera) sulla quale le parole scendevano a stento e sgrammaticate, a frasi disordinate, a servizio d'un pensiero che veniva a singhiozzi. Perchè la carta aveva ricevuto come riconoscimento il nome di pilozza?... Il processo di fabbricazione comprendeva il macero entro grandi pile, nelle quali la materia prima, legna e stracci veniva pestata: di qui anche il verbo franc. pilIer, pestare. D'altronde, i massinesi ben sapevano che presso le cartiere di Villa Lesa e di Meina, dalle macchine uscivano poi le lunghe fogliate di bella carta.
scàràbucín segretarío questo benevolo aiutante se lo dovevano prendere a servizio gratuito i nostri bravi antenati intelligenti sì, ma analfabeti o tornati quasi tali
minìn bacio un bacio ai gnuféj ed alle gnufèle.. e poi vi sottoponevano la loro sghembata... firmisina firma.
Ma in la busèra poteva succedere che il vino facesse montare i fumi alla testa, la schiuchéta e che, di parola in parola, si arrivasse ad una lite...
maréta lite Ed allora si passava agli scambi di parole poco gentili od anche molto cattive (cheifán). E poteva arrivare ad inquadrarsi alla porta un'ombra nera e corporuta, ossia quella del
ligùscia carabiniere
E se la comparsa non fosse stata sufficiente, i due altercanti, barcollando sulle gambe malferme, dovevano andare a dormire sul tavolazzo, in...
catùfia prigione Ed al paese poi, ci pensavano i compatrioti a far sapere a tutti che il tale era diventato un...
Catufiàt(in catufia) ossia ospite della prigione ossia ospite della prigione Accennando a questa part'ta di « busèra » e « catùfa » non ho voluto né disonorare la classe né il paese, ho voluto solo, a modo mio, far completo il dizionario del tarusc.
Termini pregiativi e spregiativi.
taruscino
taruscina ag Persona dell’alto
vergante L'aggettivo taruscino è applicato sia alle cose che alle persone (anche in senso morale).
tamégn, tamégna M
f sano, forte
Mager e magèra ag bello, buono Sta bene a capolista, perchè è usatissimo e dice un po' tutto, per qualità, bontà, grandezza, utilità, ecc. Ad esempio: bola magéra sarebbe una città “grande e bella”. Butrisa magéra, è senz'altro una “ buona bottiglia “. E' presumibile una derivazione dal tedesco o meglio da una corruzione dialettale ted., avente per radice max (il massimo). L'aggettivo taruscino è applicato sia alle cose che alle persone (anche in senso morale).
mager avv bene E' anche avverbio e perciò stanscià magir vuol dire - stare bene -.
lústár nuovo Era già di possesso dei nostri dialetti vergantini nel senso di “lucente “; fu assunto dal tarusc nel senso di « nuovo » Ad es. lùscia lùstra (ombrello nuovo). Più comunemente anche per questo significato si faceva ricorso a magér.
virlòn robusto
grossolano Per il senso di - alto e grasso - possiamo riferirci allo spagn. birlo (birillo) ed al dialettale lomb. pirlòn (alto).
chèifàn maligno(in gamba)
furbo Certo la parola è stata confezionata su materia prima tedesca. Di là dalle Alpi si usano parole simili, ossia kaufen (mercanteggiare), kenen (conoscere... il mestiere) e cheifen (strillare). Di lì le qualità tutte del buon lusciàt , accorto, furbo, buon strillone nelle fiere
brisold ag ricco, danaroso Siamo ancora in linea coi tedeschi quanto alle due radicali, brief, che accenna alla “ carta “ e sold che la fa diventare, carta monetata.
barzòla spr diavolo E passando agli spregiativi, cominciamo dal nome stesso del “ diavolo “, applicato sia all'uomo maligno, carico di tutte le cattiverie, come anche ad un “ povero diavolo “.
tamàcul
o tartìful spr stupido, tonto,
facilone Il primo termine avrebbe una consonanza più tedesca che nostrana, mentre il secondo si accosta ai dialetti piemontesi che chiamano tartiful le patate, e perciò va a collimare con la espressione dialettale: stùpId cumè na tartifula o cumè na bija
mínàja capace a metà
andicappato Minà appartiene al tarùsc in servizio di prefisso ad altra parola col significato di Meno, ovvero a metà. Il termine è stato mendicato nel; mantovano-ferrarese. La finale richiederebbe una sillaba lasciata cadere per brevità d'espressione. Crederei dì ricostruire così: mina-bija = colui che fa per metà.
biròn zoticone
maldestro L'it. birro = lo sbirro delle imposte, non rende bene come il sostantivo spagn. birria (antipatia).
paìnàcc trasandato (nel vestito), La più verosimile delle parentele di questo aggettivo sembra sia quella che intercorre tra painàcc e pagliàsc, pagliaccio, trattandosi d'una qualifica del modo di vestire. Comunque sembra un termine a sfondo veneto.
luzòn fannullone
perdi tempo Dall'ít. lusco ovvero losco forse ne è venuto l'accrescitivo dialettale luzòn. Sembra pure ovvio considerarlo un'abbreviazione di lazaròn.
lòfi brutto,cattivo Fu già prima in dotazione del dialetto biellese e d'altri dialetti del Piemonte. Il luscíat diceva: El misté del neust tona l'è propi un místé lofi.
aguzin usuraio Strozzino ,
ül bälabiütt Ballare nudo Dice "fà mìa ül bälabiütt" non ballare nudo, gli antichi guerrieri usavano ballare nudi
kasér dí manij donnaiolo Facile a comprendersi l'espressione velativa del gergo taruscico, se si tiene presente il significato di kasér (padrone), e di manij (donne). Ma il tarusc tiene in serbo anche appellativi per le donne... di cattiva nomea: mèula, ranza, vasciága, tacrìna, ecc.
Da terminare.
dalovich lontano Guardare lontano, oppure venire da lontano
sfi qui Sfi,sfo,sfa – qui, quo, qua,
vol sì dial. ted. jawol che significa: Sì, verissimo!
bùsc niente
ribas no Per nulla.
magér bene
mina metà Come sopra
sténcia tanto
Da terminare
Congiunzioni
ed articoli A legare fra loro i termini e le frasi, a specificare il tempo dei verbi, ecc., il tarusc si serviva dei mezzi e dei modi offerti dai vari dialetti, specialmente da quello imparato, dalla mamma, al paese nativo. E così per i vergantini ci fu subito una base comune, una piattaforma di facile intesa e di avvio al dialogo.
Da terminare.
Congiunzione dei verbi. Alcuni esempi.
Poichè il soggetto è quasi sempre al
singolare il tarùsc si dispensa dalle variazioni
per le sei diverse persone
Es El me toná él fica an la bola del Tor, á Turin
El veust tona él fica an la bola el Tor , à Turin
Quando però è costretto a usare un soggetto plurale si conforma ai nostri usi dialettali, e crea anche la terza persona plurale
Es. L’ Urchit a fican vuléntérá Vers Carscian Milano
I Mássinòit a fican vuléntérá vers Bíèlá
ecc.,
Quando poi i vari tempi richiedono l'ausiliare
(essere od avere) sarà questo a determinare il tempo.
. Es El me tona l'è ficà a Piasensà
El veust tona léva rúscà magér
Stesura incompleta
1a correzione dicembre 2010
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