sabato 26 marzo 2011

1. BRISINO ED IL SUO TARUSCH. COSA E' RIMASTO DEL NOSTRO MONDO CONTADINO E DEI VECCHI MESTIERI

I Capitolo.
Brisino ed Il suo Tarùsch. Cosa è rimasto del nostro mondo contadino.

Tarùsc, questo termine ormai sta per una lingua scomparsa (idioma, vernacolo, dialetto) tenterò di farlo rivivere attraverso la pubblicazione di tutte le parole che mi ricordo, ed attingendo dalle pubblicazioni che ho consultato (troverete un’ampia bibliografia alla fine del lavoro): opportuno, quindi, cercare di chiarirne l'origine ed il significato. La lingua, l'idioma si regionalizza con i primi pionieri gli "ombrellai", i "lùsciat" che avevano adottato, per scambiarsi tra loro notizie ed informazioni, un linguaggio del tutto particolare delle genti dell'alto vergante, diventa dalla fine del 700’ e fino all'inizio del 900' quel che si definisce un gergo (parlato a Brisino da poche persone, fino la fine degli anni ’80). Il Tarùsc: “Gergo è parola di probabile origine provenzale, con la quale si designano genericamente le lingue speciali parlate da specifici gruppi sociali, che non intendono farsi comprendere da altri; vincolo ideale per gruppi corporativi artigiani, tecnici, ecc. ”. L'intento principale era quello di sottrarsi al controllo altrui, stabilendo un tipo di comunicazione decifrabile soltanto da chi ne possegga il codice, non avere una sua unità precisa, ma confonde ed amalgama parlate di gruppi diversi tra loro». Il Ferrero rileva “l'importante capitolo dei gerghi degli artigiani, di particolare importanza a cavallo tra il 700 e nel 800 e nei primi decenni del '900, e poi in via d’estinzione con l'estinzione stessa di tanti mestieri (ombrellai, ecc.) “. Non sono del tutto convinto di quello che dice il Ferrero, anche perché queste parole e le frasi idiomatiche le ho ascoltate dai vecchi del mio paese e molti di loro non hanno mai avuto nessun rapporto con il lavoro degli ombrellai, sono invece quasi certo che questa categoria ha assunto la parlata dell'alto vergante, come lingua di distinzione della propria corporazione, tanto che questo gergo è parlato ancora dai pochi vecchi rimasti. La lingua scompare, e questo è vero, dal momento in cui scompare una generazione poco scolarizzata, dove s’incomincia a studiare in maniera sistematica la lingua italiana dopo l'Unità d'Italia. Rif. La nuova Italia. Dizionario dei Comuni del regno Ed. Vallardi 1899. Alcune parole si possono ritrovare nel Dizionario Piemontese - Italiano del “Michela Ponza”, anno 1847, quarta edizione Carlo Schiepatti - Torino. In questa definizione sono precisate le ragioni che furono all'origine del nostro tarùsc, la sua funzione ed anche il perché del suo declino; e non mi sembra inutile rileva¬re l'esplicito riferimento, tra gli altri, proprio agli ombrellai ed alla generazione che sono trapassate. E' questa una ragione che mi permette di concorda¬re in parte, con il Prini che considerò “un esemplare raro di lingua furbesca e chissà un po' da furfanti di buon conio”, anche se “meriterebbe” di esser recuperato, - il primo - vedeva l'influsso delle occupazioni succedute nei secoli scorsi. Sul suo territorio passava la vecchia strada del Sempione. Il lago era una via di comunicazione tra la Svizzera, la Lombardia e il Piemonte, dove per la popolazione locale era l'unica salvezza per mantenere una propria identità e libertà di fronte ai continui soprusi, il popolo serviva un tempo come d’altronde oggi, solo come carne da macello per le varie guerre. Nel museo dell’Isola Bella è conservata una piroga di 7000 anni fa, sta a significare che già allora le popolazioni si muovevano, non erano stanziali, tanto più che il legno della piroga sembra di origine africana. Non è del tutto vero per chi sostiene che le origini siano celtiche, con riferimento alla piroga si potrebbe sostenere il contrario che gli antichi abitanti potrebbero discendere da un popolo mediterreaneo. E' che i ritrovamenti, altro non sono che, i resti di navigatori mediterranei del nord africa. Una lingua che purtroppo, per la scomparsa delle generazioni che ci hanno preceduto, il Tarùsc è divenuto un ricordo lontano, una sorta di "cimelio di famiglia", sino ad esser del tutto dimenticato. Non ha lasciato che scarse e poche tracce, anche in quei meritori tentativi di tramandare, un ricordo delle vicende e delle opere di questi figli del Vergante. Al Tarùsc si accenna di sfuggita soltanto in qualche pubblicazione più vicina al mondo corporativo dei mestieri ed in particolar modo degli ombrellai. Un ricordo più preciso s’incontra nel Museo di Gignese: infatti, in un dépliant illustrativo non datato a cura della Piccinino è riportato un piccolo Dizionarietto Tarùsc Italiano. Nella recente Guida (del 1989) ve n’è soltanto un cenno, senza citazioni di parole o motti. Non si trova nulla o quasi nelle opere, anche recenti, peraltro meritorie, che si sono occupate della storia del Vergante. Unica eccezione, e pubblicazioni di padre Manni, nel 1968 e nel 1973 diede alle stampe due volumetti: nel primo si occupò del suo paese e degli abitanti (Massino e i suoi lusciát) e dopo aver pazientemente ricostruite le genealogie di vari gruppi familiari, si soffermò diffusamente sul Tarùsc. A questo dedicò la sua seconda opera Il Tarùsc, la parlata degli ombrellai. Dizionarietto etimologico); un agile manuale, davvero prezioso, raccoglie tutti o quasi i vocaboli gergali, le frasi più tipiche e caratteristiche e la loro costruzione grammaticale, ma tenta anche di risalire all’etimologia dei vari vocaboli, cercando di individuare gli influssi d’altri dialetti o lingue che avrebbero potuto contribuire a modificare una preesistente parola dialettale locale o a crearne una nuova. Purtroppo questi due libri sono oggi molto difficilmente reperibili. Consiglio la lettura. Partendo da queste due pubblicazioni cercherò di ricostruire un pezzo della storia dei nostri antenati. In definitiva, si ritiene che l'origine di queste parole gergali vada ricercata nei dialetti locali (un misto di lombardo alto piemontese, anche con influssi liguri) ed aggiungo anche l’influsso ladino ed alcuni vocaboli forse siano importati probabilmente dai primi ombrellai, venuti a contatto con gli abitanti di regioni o zone vicine, che spesso parlavano dialetti simili al loro. A differenza di molti autorevoli autori e ricercatori penso che, con il miglioramento delle comunicazioni altri vocaboli siano aggiunti, adattandoli nella pronuncia, oppure modificandone talora il significato abituale, fors'anche creandone dei nuovi per assonanza od imitazione. Non va dimenticato che, sino ad oltre la metà del secolo scorso, gran parte della popolazione usava preferibilmente, se non soltanto, il dialetto e, quindi, non può sorprendere che l'influsso della lingua italiana sia stato minimo, talora nullo. Cosa che invece, si verificò per le lingue straniere, in quel tempo ancora usate dal popolo con deformazioni dialettali. Da non trascurare i rapporti ed i contatti con elementi provenienti dalla Savoia e dai Cantoni Svizzeri (lingua ladina)che, avvenivano per la comune frequentazione di fiere e mercati. Sono anche da ricordare le parlate walzer (ancora oggi usate) d’alcune vicine vallate alpine, come Alagna, Macugnaga, Formazza. Solo con il traforo del Sempione, l’attuale provincia di Verbania e parte dell'alto Novarese trovava uno sbocco internazionale che si aggiungeva alla regionalizazione in corso. Per tutti i secoli passati non esistevano le scuole e l'istruzione, per pochi e molto spesso legata alla chiesa. Mi è sembrato doveroso e necessario dedicare una riflessione a questa parlata gergale, ríproponendone i vocaboli e, talora, cercando di risalire alle etimologie, avvalendomi (oltre che, naturalmente, delle opere del Manni, della Piccinino e dell'Ambrosini del Prini e dell'Aghina) anche della recente pubblicazione del Cortelazzo e del Marcato, nella quale, purtroppo, si possono trovare soltanto richiami indiretti da termini dialettali delle vicine province, più volte ricordate: Lúsciàt e Tarùsc. Il primo ha un suo preciso riferimento alla parola che, nel dialetto locale, indica la pioggia ed anche l'acqua: Lúscià, talora si trova scritta slùscià, con i relativi verbi lúscíà o slùscià per piovere (ed anche, per traslato, orinare). In seguito il termine passò ad indicare l'arnese che ripara dalla pioggia, l'ombrello o parapioggia, e, di conseguenza ne derivò anche lúsciàt, cioè l'ombrellaio. Il Ferrero ricorda la parola lúsa con il significato appunto d’acqua, propria dei gerghi artigianali delle vallate alpine. E' necessario, dapprima, cercare di interpretare la parola Tarùsc. Particolare ed intricata è l'etimologia di Tarùsc: nell’originario dialetto con questo termine, s’indicava «quel residuo che si raccoglieva assieme al terreno, là dove era stato depositato un cumulo di letame o di fogliame». Tarùsc sta per “Risigusc” che significa la segatura del legno, del lavoro del falegname, smusc per angolo, spigolo ecc. ), ecco perché è troppo semplice la teoria di un unico mestiere, mi ricordo che nella falegnameria che ho avuto l’opportunità di lavorare nelle vacanze del1952, molti degli operai parlavano sul lavoro con quest’idioma. Come si poteva giustificare il suo uso per indicare una particolare parlata gergale? Un ricercatore cercò di individuarne la derivazione da una lingua straniera, dal tedesco, e in altre parole da Tarnung = mascheramento, o da tarnen = mascherare, camuffarsi. Se ne potrebbe, quindi, dedurre che i primi lúsciàt trovarono foneticamente collegabili queste parole germaniche (tra l'altro anche mal pronunziate) con un vocabolo familiare, attribuendogli un significato ben diverso, ma consono alle loro esigenze. Una considerazione nei paesi dell'alto vergante ci sono stati vari insediamenti della popolazione germanica, inoltre come molti nostri connazionali, siamo un popolo d’emigrazione, è probabile che al rientro ogni emigrato abbia riportato un pò del modo dove ha vissuto. Troviamo dei Brisinesi o dell'alto vergante oltre che in molte città Italiane, Torino, Genova, Milano, Roma, Napoli e province limitrofe. Incontriamo dei discendenti che, più delle volte non parlano italiano ma il dialetto, anche in Francia, Svizzera, Germania, Brasile nel MatoGrosso, Argentina, Venezuela, Stati Uniti, Australia e Africa meridionale. A Buenos Aires nel 1965 al mercato dell’antiquariato di Sant’Elmo ho trattato l’acquisto di libri, (la storia dei comuni italiani ed. 1880), con un signore molto anziano che parlava il Tarùsc. Era partito per l’Argentina, dal lago, con i genitori nel 1890. Dal canto suo il Ferrero cita il termine Taròn che indicava “un gergo parlato da mestieranti girovaghi delle vallate alpine” e che, in alcune località, diventava Tarùc ed anche Tarùsc senza peraltro addentrarsi in questioni etimologiche. Oggi la parola “taròn” impropriamente è usata in senso dispregiativo. Da citare, soltanto per curiosità, si vuole far risalire ai Taurisci, popolazione che precedette i Leponzi in questo territorio; il che naturalmente non regge nemmeno per ipotesi. Per molti vocaboli troviamo derivazioni da lingue straniere.

Da molti anni, infatti, la moda del folclore, del mondo contadino, dei mestieri, della genuinità dei cibi o stile di vita delle comunità minori emarginate; investe i consumi alimentari, le fogge dell’abbigliamento, la produzione di mobili, l’industria del tempo libero. Nel rivedere questa ricerca, mi sono trovato improvvisamente impegnato ad affrontare, in termini nuovi, le ragioni stesse del lavoro per renderne più esplicite le motivazioni e gli scopi e per distinguere la posizione dai facili entusiasti. Una ricerca necessaria iniziata nell’estate del 1948, non già per una boriosa difesa della propria “originalità” di ricerca, ma proseguire serenamente nella curiosità, a beneficio di chi continuerà a guardare con interesse al “mondo popolare”. L’improvviso accendersi dell’interesse per il folclore nel nostro Paese segue analoghi entusiasmi che, già da tempo, si erano manifestati in altre società industriali avanzate: si può dire, anzi, che il fenomeno in sé, è, per certi versi, il sintomo di un benessere economico che inizia a diffondersi in tutti gli strati sociali. Nasce il desiderio di superare gli aspetti più consumistici di una società industrialmente avanzata che, induce una massa sempre più larga d’abitanti dei centri urbani a guardare, con nuovo interesse, le piccole comunità o i luoghi ancora “incontaminati” della vita popolare cittadina come, per esempio, il mercato o l’osteria. L’esplorazione dei luoghi e condizioni di vita delle classi subalterne non è nuova. Si può dire, anzi, che mai ha cessato, già da tempi lontani, di stimolare l’attenzione e l’interesse di una ristretta élite intellettuale, sollecitata dal desiderio di scoprire fatti, situazioni e valori estranei all’alta cultura. Gli appunti di viaggio di scrittori famosi sono ricchi d’annotazioni e spunti sulla vita popolare urbana e agro-pastorale, dalla descrizione della festa dei friggitori di frittelle vista da Goethe a Napoli nel giorno di s. Giuseppe alle impressioni di Lawrence durante un soggiorno in Sardegna. Accanto alle spigolature curiose, vi è una vasta letteratura antropologica che dopo le lontane e solitarie, ma straordinariamente precorritrici, meditazioni di Montaigne, trova solidi presupposti negli illuministi francesi, in Spencer, in Taylor, in Morgan, in Marx e, recentemente, in Gramsci e De Martino. Nel solco tracciato da questi “maestri del pensiero” si sono sviluppate le indagini di folcloristi e di etnografi. Certo non sarà per me facile questo lavoro, non voglio paragonare a nessuno degli illustri nomi citati, continuerò raccogliere i dati così come iniziato dal lontano 1948 per poi assemblarli e far parlare al testo un'unica idioma “Il Tarùsc”. Una “guida” al Tarùsc, potrebbe limitarsi all’elenco e alla descrizione di lavoro, mestieri, feste, riti, cerimonie, canti, balli, di sistemi d’abbigliamento che, sappiamo appagare la curiosità del nuovo e del diverso. Nasce il bisogno di consumare spettacoli e di evadere dai ritmi della vita cittadina. Certamente in questo testo non mancheranno le informazioni sui momenti più originali e sugli aspetti meno noti della vita tradizionale dei pastori, dei contadini, dei pescatori, degli ombrellai e degli artigiani dell’alto vergante ed in particolare di Brisino. Diventa interessante assistere alle varie manifestazioni, ancora carichi di suggestione, nonostante gli interventi delle Pro Loco e d’altre organizzazioni che disciplinano i protagonisti per incrementare l’affluenza turistica. Sarà interessante notare che, in questi casi, gli stessi protagonisti entrano nel ruolo di portatori di folclore e si rappresentano come autentici esponenti della cultura locale per appagare la curiosità dei forestieri. Il folclorista mette in conto senza scandalo questo distacco dalla cerimonialità tradizionale perché sa che, in un Carnevale, in una processione, in un rito di maggio o di Capodanno, vi è vita segreta, più interna, entro la quale indagare per cogliere le ragioni vere e i tratti culturali decisivi che inducono un gruppo sociale, rispettando ricorrenze fisse, ad abbigliarsi in modo eccentrico e a dar luogo a comportamenti festosi che, di là dai mutamenti, degli aggiornamenti e delle regie, perpetuano rituali antichi con significati che talvolta restano oscuri. Proprio il Carnevale, con la sua esplosione di spettacolarità ubbidisce a bisogni insopprimibili. Un “mondo alla rovescia” che occorre collocare nei meccanismi compensativi elaborati dalla comunità. Un rovesciamento dei dati di fatto che nella vita quotidiana agiscono senza alternative. Del resto il rovesciamento è già implicito nella gratuità delle cerimonie e dei comportamenti, nel protagonismo esasperato, nel travestimento sontuoso: tutto l’opposto, insomma, di quanto le condizioni di vita e di lavoro impongono nel corso dell’anno. I rischi più gravi si corrono se l’invito dell’etnografo ad avviare un confronto segreto col “mondo popolare” si traduce in safari folcloristici dove non si sa più se i personaggi pittoreschi da osservare sono i contadini e i pastori o le frotte dei turisti. Il giovane che si pone il problema, di conoscere meglio il nostro Paese dovrebbe recarsi presso comunità minori, venire a contatto con i coetanei, prendere coscienza di condizioni di vita e di lavoro che in molte comunità alpine, appenniniche, meridionali e insulari si ri-propongono secondo modalità “arcaiche”. Scoprirà allora che, in molti casi, la tecnologia più tradizionale (basata sull’energia delle braccia, o degli animali, o del vento o dell’acqua) resta immutata perché è l’unica praticabile; e che antiche modalità di coltivazione e d’allevamento degli animali ubbidiscono alla primaria necessità di nutrirsi e di costruire un riparo. Lo stretto rapporto tra tecnologia, in pratica attrezzi di lavoro o macchine elementari, e risorse ambientali è uno dei pochi tratti culturali che unificano contadini, pastori, pescatori e artigiani di regioni diverse; mentre l’analisi dei prodotti culturali, non materiali, come il canto, la danza, l’espressione linguistica, la vita cerimoniale, svela normalmente forti differenziazioni. Le ricerche fin qui condotte spiegano, solo in parte, i dati accumulati in anni di rilevazioni. Parliamo di responsabilità politiche nuove che, si sono poste agli studiosi d’etnografia e folclore, dall'ultimo dopo guerra, intende riferirsi all’atteggiamento da assumere di fronte a quelle condizioni d’arretratezza, e talvolta di miseria, che fa da supporto ai fenomeni oggetto di studio, tramandati con un costo sociale molto elevato; se, insomma, si propugna una società più moderna, più giusta è difficile non augurarsi che le comunità minori superino quei ritardi soprattutto economici, di fatto, le emarginano nei processi di trasformazione in atto. Le cose non sono così semplici. In primo luogo, chi cerca, che è uomo di passaggio, anche se prolunga per anni il suo soggiorno di studio, non può correttamente sollecitare processi di cambiamento se poi non è in grado di parteciparvi attivamente; in secondo luogo, non tutti i tratti culturali e le comunità minori, sono da considerare residua sopravvivenza di condizioni di vita e di lavoro da rimuovere. Beni alimentari e manufatti artigianali s’inseriscono felicemente nel mercato locale e in quello urbano e garantiscono, a diverse piccole comunità, un reddito stabile e sicuro; e non è detto che, per inserirsi efficacemente nei ritmi di una società moderna, si debbano necessariamente rimuovere feste, canti, balli, tradizioni, luoghi di lavoro, abitazioni. Una volta superata il pregiudizio che relegava la cultura popolare in una sfera naturalistica, si parlò a lungo, per le società primitive, di popoli di natura, si è acquisita coscienza della storicità dei fatti etnografici. Non basta più osservare che certi riti “si perdono nella notte dei tempi”, che l’abbigliamento tradizionale, lo stile di costruzione delle case o un repertorio di canti esistono da tempi immemorabili.
C i troviamo un compito d’enorme difficoltà che ha prodotto risultati non sempre soddisfacenti ma che è necessario per superare stucchevoli genericità e per coinvolgere utilmente, da protagonisti attivi, quegli uomini che i folcloristi ottocenteschi chiamavano “portatori” e che oggi non possiamo più limitarci a considerare soltanto “informatori”. L’aiuto concreto che il ricercatore può dare sta nella capacità di compiere il suo lavoro apertamente, confrontando i risultati e i problemi con quegli stessi soggetti che hanno offerto collaborazione e aiuto. I fatti che l’etnografia offre alla nostra attenzione sono stratificazioni d’avvenimenti passati, assunti in forma frammentaria, secondo i bisogni e le relative risposte che una comunità, nel suo insieme, elabora. Acquisita la consapevolezza della “storicità” dei tratti culturali si fa più acuto il problema della loro rimozione. Modi drammaticamente anacronistici di affrontare crisi esistenziali scatenate dalla malattia e dalla morte, si pensi al lamento funebre, o a pratiche terapeutiche crudeli, inefficaci o del tutto superstiziose, sono in estinzione e, quando vengono rilevate come oggetto di studio, difficilmente un etnografo, desideroso di appartenere degnamente a una comunità di ricercatori che si qualificano “scienziati dell’uomo”, si sottrae alla speranza che tali fenomeni non debbano più potersi indagare “dal vivo” ma soltanto attraverso il resoconto di vecchie testimonianze. Accanto ai tratti culturali da rimuovere e superare ve ne sono altri che vorremmo largamente diffusi e che appartengono a quella condizione ideale di un’umanità nuova, “redenta” dagli effetti perversi del consumisrno; tratti culturali che, in molti casi, proprio i giovani delle città, tentano di costruire inventando modi di vita e di svago nuovi e alternativi. Pensiamo alle musiche, ai balli, alle feste, alle particolari modalità di aggregazione che, in nome del progresso, dell’aspirazione ad assumere moduli di vita urbana, vengono dalle piccole comunità in trasformazione eliminati per sempre. La bettola diventa un bar chiassoso con musica registrata e giochi elettronici mentre i luoghi destinati al ballo restano deserti si popolano le discoteche. Nel frattempo i giovani delle città si affannano a cercare vecchie osterie per bere il vino e giocare a carte o si riversano nelle piazze per suonare e ballare. In certi casi pare di assistere alla gara di due mondi che rischiano, in nome della modernità, di inseguirsi senza mai raggiungersi proprio, quando le differenze città-campagna sembra annullarsi. Grazie ad amministrazioni comunali dinamiche e attente, grazie alle sollecitazioni di studiosi locali o alla sensibilità nuova diffusasi in larghi strati della popolazione, capiterà di imbattersi in piccoli musei etnografici, es. il museo di Gignese, i mulini riattivati in case, piazze, cascine restaurate e “restituite” alla comunità. A volte la motivazione è l’orgoglio municipalistico di rendere vivibile, per se stessi il proprio paese; in altri casi, con la riesumazione, talvolta improbabile, di antiche feste, di canti di balli andati in disuso, si creano attrazioni turistiche da associare alla salubrità alla bellezza naturale dei luoghi.
Inserire foto la Patafjeta.

Come si vede, anche una sommaria valutazione di ciò che un viaggiatore non distratto può osservare aggirandosi nelle comunità minori, sfugge a rilevanti e definitive classificazioni: e, infatti, lo studio dell’etnografia si basa più sulle distinzioni, che sulle categoriche affermazioni. Non a caso i contributi più seri si avvalgono degli strumenti concettuali più ricercati che la cultura produce. Quel che appare certo è che la cultura popolare è essenzialmente orale. L’oralità non è soltanto da intendersi come un dispositivo per tramandare canti e testi verbali formalizzati, in versi o in prosa, ma anche come trasmissione di tecniche per costruire gli attrezzi di lavoro o una casa, per allevare gli animali e coltivare i campi, per riconoscere le piante e le erbe adatte all’alimentazione e alla cura della salute. Oralmente sono tramandati anche i nomi dei luoghi, il racconto talvolta realistico e talvolta leggendario, di fatti ed esperienze vissute nel passato. Apparirà evidente la presenza, nella vita tradizionale, di residui consistenti delle esperienze storiche e culturali lasciate in eredità dalle classi dominanti. Evidente che tali eredità erano più consistenti in un contadino piemontese o toscano piuttosto che in un bracciante alpino, lucano o in un pastore sardo. Nel primo caso, tra “mondo popolare” ed élite intellettuale, vi erano contatti e persino scambi, negli altri casi, al contrario, probabilmente, erano più sporadici o quasi inesistenti. La montagna ha da sempre diviso la società. Nella sedimentazione d’arcaicità e di singole esperienze culturali del passato si fa notare il percorso storico di una comunità e la costruzione di una visione complessiva del mondo, accanto alla capacità di interrogarlo e di darsi risposte. Si sposta l’attenzione, dalla comunità nel suo insieme, al singolo caso umano che, in modo esemplare, può sottoporre a verifica il punto di vista del ricercatore, il problema si pone con contorni più definiti. Un uomo è un erede e un produttore di cultura che “legge” la realtà, vi si adatta e, quando può, la trasforma. A questi fini eredita ed elabora tecniche adatte a soddisfare i bisogni materiali. Produce o rielabora comportamenti festosi per appagare le esigenze di socializzazione, assimila o reinventa spiegazioni per capire secondo criteri naturali, soprannaturali, magici e scientifici gli eventi dell’ambiente fisico e umano entro il quale agisce. Nel riconoscergli l’integrità d’uomo pensante possiamo notare il più spregiudicato accostamento di tratti residuali dell’élite sociale accanto ad altri, del tutto originali, elaborati autonomamente entro il gruppo di appartenenza. La capacità di individuare questi due diversi aspetti del mondo popolare si potrebbe forse proporre come spunto appassionante per il viaggiare con questo testo nel passato della comunità del vergante, in particolare nella società Brisinese e nell’idioma scomparso del “Tarùsc”.
Era la lingua di casa mia, dei miei antenati(*) che, ho sempre cercato di non dimenticare insieme a tante altre cose dei miei genitori. Al rientro dal collegio, si sforzavano di usare l’italiano, io scivolavo con piacere, per aiutarli, nel dialetto nel Tarùsc. I dialetti entrano anche a raccontare una vicenda sociale: l’emigrazione, ma non quella remota, quella più nuova, Oggi, quando la scelta non è tra fame nera e partire, ma nell’emigrare c’entra la voglia di avere «più soldi - e c’entra anche il bisogno più evoluto di guardare il mondo. Dietro il tema dell’emigrazione e del ritorno, fa intravedere la dialettica ormai non più lineare fra Tradizione e Progresso: il progresso oggi dove si annida. Dove è la vera qualità della vita, in città o nei paesi? Quello che si può già pensare, è che l’italiano d’oggi va riducendosi a gran velocità alle duemila, forse duecento parole usate in televisione. Più quel po’ di inglese d’uso citato perfino dall’altero Devoto-Oli che ingloba nella sua ultima edizione. I dialetti sono pertanto dei forzieri: pronti, lì, per ridare alla lingua di chi narra originalità, sapori forti e regalare parole per esprimere sentimenti altrimenti fuori uso.
(*) L’atto notarile di divisione del 1750, il mestiere del mio trisavolo Cesare Battista, era l’ombrellaio e della mia trisavola MariaTeresa.

Inserire foto Gioco della Morra.
Stesura incompleta
1a correzione dicembre 2010

2 commenti:

  1. ciao volevo solo chedere se mi potete dire il sinifichato di questo nome brisino grazie mile

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Brisino frazione del comune di stresa pr VB IN SEGUITO ad una valanga che portò il paese di SantAlbino oggi cimitero la popolazione si divise in due il comune di Brisino e la frazione di magognino circa 1200

      Elimina